Contratti acausali Poste con le clausole generali dell’art.1, comma 1, e dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 – La situazione del contenzioso e le prospettive di tutela interna e internazionale

di

Vincenzo De Michele e Sergio Galleano

SOMMARIO: 1. La decisione delle Sezioni unite sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001. – 2. L’obiettivo “permanente” della liberalizzazione dei contratti a termine di Poste del legislatore e di parte della giurisprudenza di Cassazione. – 3. La sentenza n.12985/2008 della Cassazione sul sostitutivo Poste e sulla clausola generale dell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 e sul Collegato lavoro della legge n.247/2007. – 4. I potenziali effetti della sentenza n.12985/2008 della Cassazione sul contenzioso Poste e le le sue clausole generali degli artt.1, comma 1, e 2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001. 5. L’intervento deciso del legislatore del 2008 in favore di Poste e contro la sentenza n.12985/2008 della Cassazione. L’ambiguo ruolo della Corte costituzionale. – 6. Il favor postal-market delle bicamerali post-natalizie della Cassazione nel 2010 sul sostitutivo Poste. – 7. La giurisprudenza di merito non segue i voli pindarici della Cassazione sul sostitutivo Poste. La Corte di appello di Milano sui contratti successivi dell’art.2, comma 1-bis. – 8. La sentenza Sorge e l’ordinanza Vino della Corte di giustizia e le contraddizioni della Corte europea sulle clausole generali italiane e il primo e unico contratto a termine. – 9. La violenza sul giusto processo del lavoro nel gennaio-giugno 2012 in favore dello Stato e di PI nella linea “Canzio”: il commissariamento temporaneo della Corte di appello di Milano – SL e la sapiente selezione delle cause in Cassazione sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 per abbandonare la linea “Mattone” ed evitare le pregiudiziali Ue. – 10. La reazione al diniego della tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori pubblici precari italiani nella giurisprudenza della Corte di giustizia, del Massimario della Cassazione, del Tribunale di Napoli e della Corte costituzionale, prima dell’era Renzi e del Jobs act. – 11. Il Jobs act renziano e i contratti acausali a termine: la sentenza Fiamingo della Corte di giustizia sul lavoro marittino e la sentenza n.19998/2014 della Cassazione. – 12. La riattivazione dei giudizi su contratti successivi acausali Poste pendenti in Cassazione fino alle ordinanze interlocutorie alle Sezioni unite, dopo le sentenze Mascolo e Commissione contro Granducato di Lussemburgo della Corte di giustizia. La sentenza n.260/2015 della Corte costituzionale. – 13. La rinuncia delle Sezioni unite ad esercitare le funzioni giurisdizionali e il ruolo di Giudice di ultima istanza imparziale, per coprire gli abusi di Stato: le sentenze sul precariato pubblico e sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001. – 14. Gli errori irreversibili della sentenza n.11374/2016 delle Sezioni unite della Cassazione sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 e sui contratti acausali del Jobs act. – 15. Il rimedio interno per la violazione integrale e la mancata applicazione della direttiva 1999/70/CE relativamente ai contratti a tempo determinato stipulati ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001. – 16. Il rimedio internazionale del ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

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  1. La decisione delle Sezioni unite sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001
  1. Come è noto, con la sentenza n.11374/2016 del 31 maggio 2016 le Sezioni unite della Cassazione hanno messo il sigillo definitivo negativo al contenzioso Poste sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, dichiarando legittimi i contratti acausali dell’impresa statale che hanno originato i contratti acausali del Jobs act estesi a tutte le imprese.
  1. Successivamente, sono state depositate altre decisioni delle Sezioni unite su contratti successivi acausali Poste del 30 giugno 2016 nn.13375 e 13376 e del 1 luglio 2016 n.13529. Tutte le cause sono state discusse all’udienza pubblica del 5 aprile 2016[1] e le ultime tre sentenze (ne manca ancora una da pubblicare) rinviano per la motivazione alla sentenza n.11374/2016, ai sensi dell’art.118 disp.attuaz. c.p.c., così sintetizzata dalla Corte: «la sequenza di contratti a tempo determinato intercorsi tra le parti prima ricostruita, considerata la durata di ciascun contratto, la durata degli intervalli tra un contratto e l’altro e la durata complessiva del rapporto, è rispettosa della disciplina dettata dal d.lgs. 368 del 2001 come integrata dalla legge 247 del 2007; non è ipotizzabile una forma di frode alla legge ai sensi dell’art.1344 c.c. (cfr., sentenza cit., punti 62-63), e la normativa dettata dal legislatore italiano in materia è conforme alla direttiva europea (cfr., sentenza cit., punti 64-81).».
  1. In effetti, l’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 è una clausola generale ed astratta (ancora in vigore fino al 31 dicembre 2016, ai sensi dell’art.55 d.lgs. n.81/2015) introdotta espressamente dal legislatore per “liberalizzare” le assunzioni a termine di Poste italiane dall’art.1, comma 558, della legge finanziaria n.266/2005, con decorrenza 1 gennaio 2006. Su questo punto la Corte non fa altro che rispettare la c.d. voluntas legis, espressamente richiamata in moltissime decisioni di merito e anche di Cassazione, prima delle Sezioni unite.
  1. La norma acausale fu preparata con l’avallo della Corte di giustizia che, con la sentenza Mangold[2] del 22 ottobre 2005 su un caso di contratto a tempo determinato completamente inventato (come noi riteniamo) in ambienti italiani “postali”, affermò che il primo e unico contratto a tempo determinato acausale non rientrava nel campo di applicazione della clausola 5, n.1, dell’accordo quadro comunitario, legittimando così la precarizzazione dei contratti a tempo determinato per lo svuotamento delle ragioni oggettive temporanee come causa giustificativa dell’apposizione del termine.
  1. L’obiettivo “permanente” della liberalizzazione dei contratti a termine di Poste del legislatore e di parte della giurisprudenza di Cassazione
  1. Contestualmente, la legittimazione dei contratti acausali viene affermata dalla Cassazione con la sentenza del 7 dicembre 2005, n.26989[3] che, senza attendere l’esito della decisione delle Sezioni unite cui era stato affidato il compito di sanare il contrasto interpretativo, decideva che l’art.23, comma 1, della legge n.56/1987 affidava alle parti sociali una delega in bianco per l’individuazione di ipotesi di ricorso al contratto a termine anche diverse da quelle tipiche “causali”, che possono essere legittimamente “acausali” cioè senza l’elemento della temporaneità. La delega in bianco alle OO.SS. (e quindi la legittimità di tutti i contratti a termine stipulati ai sensi dell’art.25 CCNL Poste del 1994) verrà confermata dalla sentenza delle Sezioni unite n.4588/2006, ovviamente stesso Estensore, con l’aggiunta (non richiesta) anche della natura legittimamente «”ratione temporis” (ad esempio, assunzione da parte delle compagnie aeree di personale per il periodo di sei mesi, da aprile ad ottobre)» dei contratti a termine di cui all’art.1, comma 2, lett.f), della legge n.230/1962 e quindi dei contratti a tempo determinato dell’art.2, commi 1 e 1-bis (appena introdotto), d.lgs. n.368/2001.
  1. D’altra parte, anche l’originario art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 (abrogato dall’art.55 del d.lgs. n.81/2015 con decorrenza dal 25 giugno 2015) conteneva la nota clausola generale ed astratta delle ragioni tecniche, organizzative, sostitutive o produttive che era stata introdotta dal legislatore delegato in virtù della legge delega comunitaria n.422/2000 non per recepire la direttiva 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato, ma per “liberalizzare” le assunzioni a termine di Poste italiane, senza prevedere nessuna delle misure preventive di cui alla clausola n.5, n.1, dell’accordo quadro comunitario, cioè le ragioni oggettive, la durata massima complessiva dei contratti a tempo determinato, il numero massimo dei rinnovi.
  1. L’obiettivo immanente della liberalizzazione dei contratti a tempo determinato nel d.lgs. n.368/2001 è ben precisato dalla Cassazione nelle tre identiche ordinanze di rinvio pregiudiziale Ue del giugno-luglio 2013 nn.15560-15561-16680 sul lavoro marittimo precario, in cui però si sostiene che la giurisprudenza della Corte ha dovuto operare un’interpretazione sistematica comunitariamente orientata della disciplina interna, affermando che le ragioni oggettive temporanee costituiscono l’unica misura preventiva coerente con i principi della direttiva 1999/70/CE.
  1. La sentenza n.12985/2008 della Cassazione sul sostitutivo Poste e sulla clausola generale dell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 e sul Collegato lavoro della legge n.247/2007
  1. E’ infatti noto che fu la Cassazione con la sentenza Mattone-Nobile del 21 maggio 2008, n.12985 a colmare la carenza normativa di tutele nel d.lgs. n.368/2001, affermando, alla luce della sentenza Adeneler[4] della Corte di giustizia, che (diversamente da quanto affermato nella sentenza postale Mangold) anche il primo e unico contratto a tempo determinato entrava nel campo di applicazione della direttiva 1999/70/CE e che le ragioni oggettive temporanee sin dal primo ed eventualmente unico contratto a termine erano l’unica misura preventiva effettiva prevista dall’ordinamento interno, ai sensi dell’art.1, commi 1 e 2, del d.lgs. n.368/2001. In una fattispecie di contratto a tempo determinato Poste per generiche ragioni sostitutive, la sentenza Mattone-Nobile precisa che le ragioni oggettive che giustificano l’apposizione del termine al contratto di lavoro non solo devono essere specificate nel contratto di assunzione, ma il datore di lavoro, in caso di contestazione giudiziale, ha anche l’onere di provarne la sussistenza.
  1. La sentenza n.12985/2008 della Cassazione prese in considerazione anche la nuova disciplina introdotta dalla legge n.247/2007 e, in particolare, l’art.1, comma 39 del Collegato lavoro che, con l’art.1, comma 01, del d.lgs. n.368/2001 ristabiliva il rapporto regola/eccezione tra contratto a tempo indeterminato e rapporto a termine, sostenendo la tesi che l’eccezionalità del termine la si ricavava anche nella precedente formulazione e che il fatto che il primo e unico contratto a tempo determinato fosse fuori dalla direttiva 1999/70/CE dipendeva da una cattiva e incompleta lettura[5] che una parte della dottrina aveva fatto della direttiva e delle sentenze Adeneler e Mangold della Corte di giustizia.
  1. Nessun accenno viene fatto dalla sentenza n.12985/2008 della Cassazione all’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, pure introdotto dall’art.1, comma 40, della legge n.247/2007, con cui il legislatore del Collegato lavoro, con decorrenza 1° gennaio 2008, contemperando l’interesse dei lavoratori e delle imprese, all’art.1, comma 43, lettera b) ha previsto una disciplina transitoria in base alla quale, in sede di prima applicazione dell’art.1, comma 40, della stessa legge, «b) il periodo di lavoro già effettuato alla data di entrata in vigore della presente legge si computa, insieme ai periodi successivi di attività ai fini della determinazione del periodo massimo di cui al citato comma 4-bis, decorsi quindici mesi dalla medesima data.».
  1. Quindi, letteralmente, l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 era una nuova misura preventiva antiabusiva, che si aggiungeva a quella delle ragioni oggettive temporanee di cui all’art.1, commi 1 e 2, d.lgs. n.368/2001. Nè l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 aveva efficacia retroattiva se non per recuperare, nell’interesse dei lavoratori e senza danneggiare le esigenze delle imprese ad una graduale applicazione della disposizione, i periodi di lavoro a tempo determinato espletati con la stessa azienda prima del 1 gennaio 2008 a decorrere dal 1 aprile 2009.
  1. D’altra parte, l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 non poteva costituire neanche una misura preventiva effettiva, senza le ragioni oggettive temporanee, perché facilmente eludibile come garanzia antifraudolenta dal fatto che il datore di lavoro possa adibire il lavoratore a mansioni non equivalenti e precarizzare senza molti limiti e per lunghissimo tempo i rapporti di lavoro. Anche tale norma era stata introdotta “pensando” all’organizzazione di lavoro di Poste italiane, con la differenziazione di livelli e di mansioni tra portalettere junior, portalettere senior e sportellista. Sicuramente l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 non garantiva l’effettività della misura preventiva della durata massima complessiva dei contratti a tempo determinato con lo stesso datore di lavoro, perché la clausola 5, n.1, lett.b), dell’accordo quadro comunitario non prevede differenziazione di mansioni.
  1. Questo emerge chiaramente dalla sentenza n.12985/2008 della Cassazione: l’unica misura preventiva effettiva introdotta dall’ordinamento interno in attuazione della direttiva 1999/70/CE è quella delle ragioni oggettive temporanee, ai sensi dell’art.1, commi 1 e 2, d.lgs. n.368/2001.
  1. I potenziali effetti della sentenza n.12985/2008 della Cassazione sul contenzioso Poste e le le sue clausole generali degli artt.1, comma 1, e 2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001
  1. La posizione interpretativa della Cassazione del maggio 2008, con un Collegio composto dalla migliore magistratura del lavoro della Suprema Corte (tutti i componenti sono stati o sono attualmente Presidenti di Sezione e il dott. Sergio Mattone è stato il compianto Presidente titolare della Sezione lavoro), aveva posto un’ipoteca durissima sui contratti a tempo determinato stipulati da Poste italiane nella vigenza del d.lgs. n.368/2001, e cioè a decorrere dal 1° gennaio 2002. Le clausole generali utilizzate da Poste italiane non erano più sufficienti ex sé a giustificare l’apposizione del termine in presenza di una evidente carenza strutturale di organico sia con riferimento agli accordi collettivi e alle continue ristrutturazioni e riorganizzazioni per gli oltre 23.000 contratti a termine dal 1/1/2002 al 31/12/2002[6] sia in relazione alla clausola generale delle generiche ragioni sostitutive di cui all’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 per gli oltre 70.000 contratti a termine dal 1/1/2003 al 31/12/2005 sia, infine, in relazione alla clausola generale dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001.
  1. A tal proposito, i contratti a tempo determinato stipulati da Poste italiane ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, nel 2006 sono stati n.20.966 (n.4.185 in full time equivalent) su un organico di n.146.649 dipendenti a tempo indeterminato; nel 2007 n.25.972 (n.6.430 in full time equivalent) su un organico di n.146.245 dipendenti a TI; nel 2008 n.25.840 (n.5.477 in full time equivalent) su un organico di n.147.406 dipendenti a TI; nel 2009 n.7.211 (n.2.560 in full time equivalent) su un organico di n.148.126 dipendenti a tempo indeterminato.
  1. Seguendo il ragionamento della sentenza n.12985/2008 della Cassazione, tutti questi contratti di Poste erano illegittimi, perché viziati sul piano formale o sostanziale per mancata specificazione delle ragioni oggettive temporanee nel contratto di assunzione o per il vizio genetico della insussistenza delle ragioni stesse. I numeri su base annuale dei contratti a termine di Poste, del resto, deponevano nel senso dell’abuso strutturale e sistematico dei rapporti di lavoro.
  1. La sentenza n.12985/2008 della Cassazione sembrava risolvere anticipatamente i dubbi di legittimità costituzionale della clausola generale dell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 sollevati dal Tribunale di Trani[7] con ordinanza del 20 aprile 2008 proprio su un unico contratto a tempo determinato per ragioni sostitutive di Poste italiane, perché l’interpretazione della Suprema Corte adeguava alla direttiva 1999/70/CE il d.lgs. n.368/2001, rendendolo compatibile alla normativa europea nonostante l’intenzione del legislatore delegato confindustrial-postale del 2001 fosse proprio quella della totale liberalizzazione dei contratti a tempo determinato.
  1. I dubbi di illegittimità costituzionale, peraltro, erano stati incentivati proprio dalla Corte costituzionale, che, con sentenza n.44/2008, aveva dichiarato illegittima la norma che abrogava il diritto di precedenza legale dei lavoratori stagionali, per assenza di delega. Infatti, proprio per prevenire la declaratoria di incostituzionalità di tutto il decreto legislativo n.368/2001, il Governo Prodi con la legge n.247/2007 aveva dovuto riaffermare il carattere eccezionale del ricorso al contratto a tempo determinato e aggiungere una ulteriore misura preventiva con l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001.
  1. In ogni caso, l’interpretazione sistematica della causale finanziaria dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 deponeva nel senso di considerarla disciplina “aggiuntiva” all’art.1, commi 1 e 2, dello stesso decreto legislativo, per quattro ordini di considerazioni sulla base della “lettera” della normativa originaria:
  • il comma 2 dell’art.1 del decreto attuativo della direttiva 1999/70/CE contiene una previsione unitaria con obbligo a pena di inefficacia della forma scritta (per contratti di durata superiore a 12 giorni, in base al successivo comma 3 dello stesso articolo) che non contenga le ragioni oggettive di cui al comma 1, per cui se l’art.2 fosse disciplina autonoma e non aggiuntiva di legittima apposizione del termine, non vi sarebbe alcun obbligo di stipula scritta di contratti a tempo determinato acausali anche per rapporti di durata superiore a 12 giorni;
  • alla causale finanziaria (intesa come autonoma causale e condizione di legittima apposizione del termine) non si applicherebbe la normativa sui contratti successivi di cui all’art.5, comma 3, d.lgs. n.368/2001, perché essa è specificamente prevista soltanto per i contratti stipulati ai sensi dell’art.1 del decreto, come precisato dal Tribunale di Roma nell’ordinanza di legittimità costituzionale e come sarà confermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n.214/2009;
  • ai contratti stipulati ai sensi dell’art.2 d.lgs. n.368/2001, ove questa disciplina sia intesa come autonoma e non aggiuntiva a quella dell’art.1 del decreto, si applicherebbe la disciplina della proroga di cui all’art.4, perché questa disposizione nel testo antecedente alle modifiche operate dal d.l. n.34/2014 (convertito con modificazioni dalla legge n.78/2014) onerava il datore di lavoro di provare l’esistenza delle ragioni oggettive che giustificavano la proroga, cioè di quelle ragioni indicate nell’art.1, comma 1, che, evidentemente, non operano nel caso di specie di contratti “acausali”;
  • infine, quando il legislatore delegato del d.lgs. n.368/2001 ha voluto escludere una categoria di lavoratori a tempo determinato dal campo di applicazione dello stesso decreto attuativo (ora abrogato) della direttiva 1999/70/CE (non abrogata), e in particolare dall’applicazione degli artt.1, 4 e 5 sugli abusi contrattuali per mancanza di ragioni oggettive (artt.1 e 4) e sulla successione di contratti (art.5) lo ha previsto espressamente come nel caso dell’art.11, comma 4, d.lgs. n.368/2001 per i dipendenti a tempo determinato delle Fondazioni lirico-sinfoniche: «Al personale artistico e tecnico delle fondazioni di produzione musicale previste dal decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367, non si applicano le norme di cui agli articoli 4 e 5
  1. L’intervento deciso del legislatore del 2008 in favore di Poste e contro la sentenza n.12985/2008 della Cassazione. L’ambiguo ruolo della Corte costituzionale
  1. Era evidente che il legislatore, come già in passato (con il d.lgs. n.368/2001, concepito nelle stanze della Confindustria postale, e prima ancora con la norma dell’art.9, comma 21, del d.l. n.510/1996 del Governo Prodi che aveva regolarizzato due anni e mezzo di contratti illegittimi di PI dal 1 gennaio 1995 al 30 giugno 1997), sarebbe intervenuto a favore di Poste italiane, su precisa sollecitazione di Confindustria (c’è l’audizione della Marcegaglia in Commissione lavoro della Camera dei deputati del giugno 2008 che chiede espressamente di intervenire per paralizzare gli effetti della sentenza n.12985/2008 della Cassazione), che aveva confidato sul fatto che i contratti a tempo determinato nel 2001 erano stati liberalizzati, mentre la sentenza n.12985/2008 della Cassazione obbligava i giudici ad un’interpretazione comunitariamente e costituzionalmente orientata di una disciplina interna che intendeva violare la direttiva 1999/70/CE, pur avendo l’obbligo di recepirla correttamente.
  1. Infatti, con l’art.21 d.l. n.112/2008 il Governo Berlusconi inserisce innanzitutto nell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 la precisazione che le ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive potevano essere anche «riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro», facendo venire meno la temporaneità ed eccezionalità del ricorso al contratto a tempo determinato. In secondo luogo, introduce il famigerato art.4-bis d.lgs. n.368/2001, che doveva servire sui processi in corso di Poste a impedire la conversione dei rapporti a termine illegittimi, lasciando le briciole di un risarcimento dei danni da 2,5 a 6 mensilità.
  1. Giova ricordare che nel periodo in cui è entrato in vigore l’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 dal 1/1/2006 in poi gli incrementi dell’organico di Poste italiane con contratti a tempo indeterminato sono avvenuti esclusivamente in via giudiziaria, con sentenze che hanno disposto la conversione a tempo indeterminato di singoli contratti a termine illegittimi.
  1. Come descritto nelle osservazioni scritte del lavoratore Vino del giugno 2010 nella causa pregiudiziale C-20/10 (punti 319-329), a seguito di numerosi interventi legislativi e giurisprudenziali in favore di Poste italiane non solo sui contratti a termine, n.21.000 lavoratori che avevano ottenuto in sede giudiziale la trasformazione a tempo indeterminato dei singoli rapporti di lavoro a termine sono stati costretti a sottoscrivere verbali di conciliazione sindacale per evitare la soccombenza nel prosieguo dei giudizi in grado di appello o in cassazione e a restituire ratealmente a Poste italiane le somme liquidate a titolo di risarcimento dei danni calcolate al lordo e non al netto delle ritenute fiscali e previdenziali, con un guadagno per lo Stato – Poste italiane stimato in circa 2 miliardi di euro.
  1. La Corte costituzionale con la sentenza n.214/2009 sui contratti Poste ha reso il quadro interpretativo ancora più confuso e complicato.
  1. Dopo aver dichiarato illegittimo (ovviamente) l’art.4-bis, d.lgs. n.368/2001, sull’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 ha imposto un onere di specificazione del nominativo da sostituire in caso di ragioni sostitutive, mentre l’art.1, comma 2, del decreto prevede soltanto un obbligo di specificazione delle ragioni su cui neanche la Cassazione con la sentenza n.12985/2008 aveva inteso dare il contenuto specifico dell’indicazione del nominativo del personale sostituito.
  1. Viceversa, sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 il Giudice delle leggi ha stravolto l’interpretazione sistematica della sentenza n.12985/2008 della Cassazione, che pure qualifica «diritto vivente», e legittima la liberalizzazione dei contratti a termine di Poste con la causale finanziaria per la stessa attività di concessione dei servizi postali in relazione alla quale aveva irrigidito il ricorso alle ragioni sostitutive degli addetti al recapito.
  1. Tuttavia, la stessa Corte costituzionale ha negato la retroattività dell’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 ai contratti acausali di Poste, poiché afferma che l’art.2, comma 1-bis «si limita a richiedere, per la stipula di contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste, requisiti diversi rispetto a quelli valevoli in generale (non già l’indicazione di specifiche ragioni temporali, bensì il rispetto di una durata massima e di una quota percentuale dell’organico complessivo). Pertanto il giudice ben può esercitare il proprio potere giurisdizionale al fine di verificare la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di tale dettagliata fattispecie legale.».
  1. La Cassazione, in un primo tempo, ha cercato di intervenire a tamponare la liberalizzazione dei contratti acausali di Poste dell’art.25 CCNL 1994, imponendo, con la sentenza n.839/2010[8], il rispetto da parte di Poste dei limiti di contingentamento per il ricorso al contratto a termine sia sotto il profilo formale, specificando nel contratto di assunzione il termine di comparazione del numero dei lavoratori a tempo indeterminato oltre al numero massimo dei contratti a termine che si possono assumere, sia sotto il profilo sostanziale della prova del rispetto della clausola di contingentamento, totalmente a carico del datore di lavoro.
  1. Il favor postal-market delle bicamerali post-natalizie della Cassazione nel 2010 sul sostitutivo Poste

 

  1. Poi, con le note sentenze “gemelle” nn.1276[9] e 1277[10] del 26 gennaio 2010 la Cassazione – dopo ben due camere di consiglio del 26 novembre 2009 e del 14 gennaio 2010 e recependo le legittime proteste del prof. Pessi il 2 ottobre 2009[11] perché rischiava di perdere il suo principale cliente Poste italiane dopo la sentenza n.214/2009 della Corte costituzionale – ha stravolto i principi fissati nella sentenza n.12985/2008 della Corte di cassazione sul sostitutivo Poste e demolito l’interpretazione della Corte costituzionale n.214/2009 sull’obbligo di indicare il nominativo del lavoratore sostituito, trasformando solo per la grande impresa Poste le ragioni sostitutive in ragioni produttive o organizzative, ritenendo sufficienti così le generiche indicazioni dei 70.000 contratti di assunzione per ragioni sostitutive stipulati in tre anni da Poste.
  1. Quindi, si torna all’originaria liberalizzazione dei contratti a tempo determinato voluta dal legislatore delegato anche per le ragioni dell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 e anche per la più temporanea ed eccezionale delle ragioni oggettive: la sostituzione di personale stabile assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro.
  1. Naturalmente, all’interno della Cassazione (stesso Collegio) troviamo anche sentenze importanti di segno opposto alle due Bicamerali di Poste italiane nn.1576 e 1577/2010, come le sentenze n.2279 e n.10033/2010, sempre sull’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 per esigenze diverse da quelle sostitutive, ma questa linea di interpretazione comunitaria della normativa interna (che, per comodità, chiameremo linea “Mattone”) verrà presto abbandonata in favore del parto gemellare post-natalizio 2009 del sostitutivo (pro)Poste.
  1. La giurisprudenza di merito non segue i voli pindarici della Cassazione sul sostitutivo Poste. La Corte di appello di Milano sui contratti successivi dell’art.2, comma 1-bis
  1. E’ noto che, inizialmente, la giurisprudenza di merito non ha seguito i voli pindarici della Cassazione e si è attestata a difendere la linea “Mattone” della sentenza n.12985/2008 e i principi enunciati dalla sentenza Adeneler della Corte di giustizia sia con riferimento alle ragioni sostitutive dell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 sia con riferimento ai contratti acausali dell’art.2, comma 1-bis, in questo caso in ipotesi di pluralità di contratti.
  1. In particolare, la più veloce e, per questo, la più autorevole e pericolosa (per gli interessi erariali di Poste) delle Corti di appello, quella di Milano, seguendo l’orientamento del Tribunale di Milano (sentenza 9 ottobre 2009, n.5089, Est. Mascarello; sentenza 12 novembre 2009, n.4673, Est. Porcelli; sentenza 26 novembre 2009, n.4932, Est. Attanasio; sentenza 5 novembre 2009, n.4575, Est. Ravazzoni), sulla successione dei contratti a termine stipulati ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 con la sentenza n.505 del 21 giugno 2010 (Pres. Ruiz, Est. Cincotti) ha modificato il proprio precedente orientamento negativo per i lavoratori proprio alla luce della sentenza n.12985/2008 della Cassazione e della sentenza Adeneler della Corte di giustizia, limitando l’effetto “liberalizzante” della causale finanziaria al primo contratto a termine, dichiarando illegittimi quelli successivi. Precisa la Corte di appello di Milano nella sentenza n.505/2010 che l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 non può avere effetto sanante delle pregresse illegittimità del termine contrattuale, entrando in vigore soltanto a decorrere dal 1° aprile 2009.
  1. Sul sostitutivo Poste, addirittura, la Corte di appello di Milano con le sentenze n.217 dell’8 aprile 2010 e n.299 del 21 maggio 2010 ignora prima e contesta poi gli approdi della Cassazione delle sentenze gemelle sul sostitutivo Poste, abbracciando, nell’ultima decisione, la più rigida decisione della Corte costituzionale sull’obbligo di indicare il nominativo dei lavoratori da sostituire.
  1. La sentenza Sorge e l’ordinanza Vino della Corte di giustizia e le contraddizioni della Corte europea sulle clausole generali italiane e il primo e unico contratto a termine
  1. La giurisprudenza della Corte di giustizia del 2010 non contribuisce a chiarire la situazione interna dei contratti di Poste italiane, anzi accentua la confusione.
  1. La sentenza Sorge[12] della Cgue del 24 giugno 2010, su un unico contratto sostitutivo Poste per generiche ragioni sostitutive dal 01/10/04 al 15/01/05, dichiara la compatibilità comunitaria dell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 nella lettura adeguatrice che ne aveva già fornito la sentenza n.12985/2008 della Cassazione, attraverso l’onere di rigorosa specificazione delle ragioni oggettive e la prova della sua sussistenza in giudizio, senza però necessariamente pretendere la specificazione nel contratto di assunzione del nominativo del lavoratore da sostituire.
  1. Viene confermato, anche alla luce della sentenza Angelidaki[13] della Corte di giustizia e della sentenza n.12985/2008 della Cassazione, che anche il primo e unico contratto a tempo determinato entra nel campo di applicazione della direttiva 1999/70/CE e quindi della clausola 5 dell’accordo quadro comunitario.
  1. L’ordinanza Vino[14] dell’11 novembre 2010 della Corte di giustizia (con un Collegio a tre componenti in cui, inusualmente, non era presente nessuno dei cinque Componenti del Collegio di Lussemburgo della sentenza Sorge), su un unico contratto acausale ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 dal 1° aprile al 31 maggio 2008 con mansioni di portalettere, incredibilmente si dichiara incompetente sul primo e unico contratto per quanto riguarda il principio di uguaglianza e non discriminazione, ritenendo sostanzialmente che l’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 fosse una norma distinta dal decreto legislativo n.368/2001 in cui pure era inserita e che fosse compatibile con la clausola di non regresso riguardando un ristretto numero di lavoratori e legittime le ragioni finanziarie che ne avevano giustificato l’entrata in vigore.
  1. L’ordinanza Vino, che sarà confermata da una seconda ordinanza[15], si muove nell’ottica di favore postale della sentenza Mangold della Corte di giustizia, che appariva ampiamente superata dalla successiva giurisprudenza della Cgue, a partire dalla sentenza Adeneler e fino alla stessa sentenza Sorge, che affermava principi opposti sul primo e unico contratto a tempo determinato.
  1. L’ordinanza Vino è anche il frutto illegittimo della violazione delle regole del contraddittorio da parte della Corte di giustizia, che negò immotivamente la trattazione della causa, provocando addirittura prima un’azione revocatoria davanti alla stessa Corte europea (dichiarata inammissibile con minaccia di non ripresentare l’azione per non essere condannato alle spese) e poi un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione degli artt.6 e 13 della Cedu da parte della Corte di giustizia.
  2. Né la Corte di giustizia nell’ordinanza Vino (v. punti 14-16), né, nelle osservazioni scritte della causa Vino, la Commissione europea (punti 7-10), il Governo italiano (punti 11-19), Poste italiane (punti 7-11) hanno mai affermato l’applicabilità dell’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 come misura preventiva per i contratti Poste con causale finanziaria, riconoscendo la non applicabilità dell’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 fino al 1 aprile 2009 e quindi dopo la cessazione del contratto del 2008 impugnato nella causa pregiudiziale.
  1. Subito dopo l’ordinanza Vino della Corte di giustizia, il legislatore ha introdotto con la legge n.183/2010 norme restrittive sul contenzioso Poste sia per quanto riguarda i termini di decadenza – art.32, comma 3, lett.a) – da applicare anche ai contratti a termine cessati prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina (24 novembre 2010) sia per quanto riguarda la sanzione in caso di conversione del contratto a termine illegittimo per violazione degli artt.1, 3 o 4 d.lgs. n.368/2001 – art.32, commi 5 e 7 – da applicare anche ai giudizi in corso nella misura indennitaria onnicomprensiva da 2,5 a 12 mensilità (che per Poste sono ridotte a 6 mensilità, ai sensi del comma 6).
  1. La violenza sul giusto processo del lavoro nel gennaio-giugno 2012 in favore dello Stato e di PI nella linea “Canzio”: il commissariamento temporaneo della Corte di appello di Milano – SL e la sapiente selezione delle cause in Cassazione sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 per abbandonare la linea “Mattone” ed evitare le pregiudiziali Ue
  1. E veniamo ora alla vicenda specifica dei contratti “successivi” dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, che la sentenza n.11374/2016 della Cassazione a Sezioni unite risolve, intervendo, dopo ben cinque anni, a decidere un ricorso per cassazione promosso nel 2011.

Infatti, una lavoratrice assunta da Poste italiane con due contratti a tempo determinato stipulati ai sensi dell’art.2, comma 1 bis, d.lgs. n.368/2001 per i periodi dal 23 gennaio 2007 al 31 marzo 2007 e dal 17 aprile 2007 al 31 maggio 2007 ha impugnato con ricorso n.17638/2011 R.G. la sentenza sfavorevole di 2° grado davanti alla Suprema Corte di cassazione, proponendo contestualmente tre questioni pregiudiziali ai sensi dell’art.267, comma 3, del TFUE.

  1. Le prime due istanze pregiudiziali Ue erano identiche a quelle accolte dalla sentenza Adeneler della Corte di giustizia sulla nozione comunitaria di ragioni oggettive e sulla nozione comunitaria di contratti successivi anche con riferimento al primo e unico contratto a tempo determinato stipulato da Poste italiane s.p.a. ai sensi dell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 per generiche ragioni sostitutive, come statuito dalla Corte di giustizia Ue nella sentenza Sorge del 24 giugno 2010.
  1. La terza questione pregiudiziale Ue sollevata nel ricorso per cassazione riguardava la compatibilità comunitaria dell’art. 32, commi 5 e 7, della legge n.183/2010, norma, come visto, introdotta per favorire Poste italiane e diminuire la tutela sanzionatoria originariamente prevista, intervenendo sui processi in corso. La questione era identica a quella che sarà accolta dalla sentenza Carratù[16] del 12/12/2013 della Corte di giustizia Ue, mai applicata dalla Cassazione nei confronti dell’organismo statale Poste italiane. Attualmente risultano pendenti davanti alla Corte EDU vari ricorsi per violazione dell’art.6, par.1, CEDU a causa dell’intromissione del legislatore sui processi in corso per favorire lo Stato – Poste italiane con l’art.32, commi 5 e 7, della legge n.183/2010, tra cui il ricorso n.22143/2016 di Salvo e Santisi c. Italia.
  1. Dopo la sentenza n.303/2011 della Corte costituzionale, che segna l’ennesimo arresto in favore della legislazione postale del Giudice delle leggi dopo le sentenze n.419/2000 sul divieto di tutela dei contratti a termine illegittimi per il periodo 1/1/1995 – 30/6/1997 e n.214/2009 sulla liberalizzazione dei contratti con causale finanziaria, nel pieno Governo tecnico Monti si assiste ad atti di inaudita manipolazione del processo del lavoro sul contenzioso seriale nei confronti dello Stato e, in particolare, sulla sanzione adeguata in caso di abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato nel pubblico impiego e sui contratti a termine di Poste stipulati ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, con una concertazione tra parti della magistratura della Cassazione e l’allora Presidente della Corte di appello di Milano, dott. Giovanni Canzio, che lascia sgomenti per la violazione flagrante delle regole del giusto processo.
  1. Con sentenza n.392/2012[17] del 13 gennaio 2012 la Cassazione fissava il principio di diritto che era onere esclusivo del lavoratore quello di provare il risarcimento del danno subito in caso di abusivo ricorso al contratto a termine nel pubblico impiego e che il d.lgs. n.368/2001 e, in particolare, l’art.5 sui contratti successivi non si applicava al pubblico impiego, non operando la conversione in contratto a tempo indeterminato, come confermato dall’ordinanza Affatato[18] della Corte di giustizia (che afferma l’esatto contrario). Il Relatore della causa si rifiuta di scrivere e firmare la decisione.
  1. La sentenza n.392/2012 viene “protetta” nella sua apodittica affermazione di compatibilità della disciplina nazionale con l’ordinamento Ue dalla relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2011 del 26 gennaio 2012[19], che a pag. 18 richiama la sentenza del 20 settembre 2011 della Corte EDU nel caso Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio, che il mancato adempimento dell’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia previsto per gli organi di ultima istanza dall’art. 267 TFUE non dà luogo ad una violazione dell’art. 6 par. 1, della Cedu quando sia fornita adeguata motivazione dalla Cassazione del mancato rinvio.
  1. Il che equivale, implicitamente, ad affermare che è sufficiente per il Giudice di ultima istanza motivare il rifiuto di adempiere all’obbligo di rinvio pregiudiziale, come avverrà con la sentenza n.10127/2012, a prescindere dalla fondatezza della motivazione.
  1. L’avvocato generale Bot nelle conclusioni della causa C-160/14 Ferreira da Silva e Brito presentate l’11 giugno 2015 risponde negativamente a questa intenzione di superficiale applicazione della Suprema Corte dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, ai punti 94-95[20], invitando i Giudici nazionali alla prudenza nel rifiutarsi di adire la Corte di giustizia.
  1. Dopo quasi due anni la Corte di giustizia con l’ordinanza Papalia[21] del 12 dicembre 2013 demolirà la sentenza n.392/2012 della Cassazione, dichiarando incompatibile con la direttiva 1999/70/CE l’art.36, comma 5, d.lgs. n.165/2001 proprio perché onerava il lavoratore della prova del danno in caso di illecito ricorso al contratto a termine nel pubblico impiego.
  1. Dopo quasi quattro anni la Corte di giustizia con la sentenza Ferreira da Silva ed altri[22], accogliendo le citate conclusioni dell’Avvocato generale Bot, ha censurato lo Stato portoghese perché la Cassazione nazionale, esattamente come la Cassazione italiana prima nel 2012 con le sentenze n.392 e n.10127 della Sezione lavoro, poi nel 2016 con le sentenze n.5072 e n.11374/2016 delle Sezioni unite, si era rifiutata ingiustificatamente di operare il rinvio pregiudiziale richiesto dai lavoratori ai sensi dell’art.267, comma 3, TFUE, affermando di aver ben compreso ed applicato il diritto comunitario, dimostrando invece di non aver compreso affatto la normativa europea e sicuramente di non averla correttamente applicata, violando gravemente i principi del giusto processo.
  1. E infatti, con decreto del 1 marzo 2012 il Presidente della Corte di appello di Milano dott. Canzio – che dal 7 gennaio 2016 è diventato Primo Presidente della Cassazione pur avendo già compiuto il 71° anno di età – ha riorganizzato i ruoli di udienza della Sezione lavoro della Corte di appello per n.1080 cause definite “seriali”, di cui n.660 cause di conversione a tempo indeterminato di contratti a termine ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, da decidere entro il 31 dicembre 2012 secondo un apposito calendario, assegnandole per la trattazione in udienze tematiche a rotazione a Giudici Relatori della stessa Corte di appello non inseriti nell’organico della Sezione specializzata ma del ruolo civile, che non si erano mai occupati di controversie di lavoro.
  1. A tempo di record vengono così decise in data 11 maggio 2012 da un Collegio composto soltanto da Giudici non specializzati come Relatori ben 90 cause di stabilizzazione e/o risarcimento dei danni e/o anzianità di servizio di docenti supplenti del MIUR, con esito totalmente negativo per i lavoratori precari senza riconoscimento di alcun diritto, ivi compresa l’anzianità di servizio che invece in precedenti decisioni la CDA di Milano in composizione ordinaria aveva riconosciuto. Le sentenze vengono tutte depositate in data 15 maggio 2012 e risultano scritte dal dott. Canzio sia formalmente (n.30) sia sostanzialmente, perché nelle altre 60 redatte formalmente dagli altri Giudici si fa espresso richiamo interno alla decisione “madre” del dott. Canzio.
  1. Il giorno stesso del deposito delle 90 sentenze negative dei docenti MIUR in data 15 maggio 2012, Presidente ed Estensore un Giudice non specializzato[23], la CDA di Milano – SL con sentenza n.839/2012 ha cambiato nel dispositivo, rigettando il ricorso del lavoratore, l’orientamento favorevole ai lavoratori della stessa Corte di appello sulla successione dei contratti a tempo determinato di Poste italiane ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 con la sentenza n.505/2010, nonostante i 2/3 dei componenti dei Collegi della CDA di Milano nelle sentenze nn.505/2010 e 839/2012 fossero identici e identiche le fattispecie di due contratti acausali del 2007 e del 2008.
  1. Contestualmente, il Governo Monti segnalava alla Corte di giustizia il nominativo del prof. Tizzano[24] per la prosecuzione fino al 3/5/2018 del mandato di sei anni come Giudice italiano della Corte di Lussemburgo, iniziato il 4/5/2000. Se il mandato non fosse stato rinnovato, sarebbe scaduto il 3/5/2012 all’età di 72 anni, che, in base all’art.23, comma 2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non consentirebbe più l’espletamento del mandato di Giudice (della Cedu) per il raggiungimento del 70° anno di età. Il tetto di pensionamento del 70° anno di età è stato fissato anche per i giudici nazionali con l’art.1, comma 1, d.l. n.90/2014, la cui entrata in vigore è stata prorogata prima al 31 dicembre 2015 e poi, dall’art.18, comma 1, d.l. n.83/2015, al 31 dicembre 2016, per consentire al dott. Canzio[25] di diventare 1° Presidente della Cassazione a 71 anni e al dott. Rordorf[26] a quasi 71 anni di diventarne il Presidente aggiunto per poco meno di un anno di servizio, salvo la 3ª possibile proroga dei due mandati al 31/12/2017. Proroghe al pensionamento al compimento dei 70 anni che, però, sono state previste soltanto per la magistratura ordinaria, escludendo i giudici amministrativi e quelli contabili, rivelatisi spesso più autonomi rispetto alle politiche governative del momento e meno inclini a tutelare gli abusi di Stato.
  1. Sempre contestualmente, con circolare del 14 maggio 2012 n.65934 il Ministero della Giustizia è intervenuto ad interpretare le disposizioni contenute nell’art.37 D.L. n.98/2011 in materia di spese di giustizia, accentuando la alterazione del giusto processo già resa manifesta dalla gratuità fiscale concessa a tutte le pubbliche amministrazioni (comprese Poste italiane) dall’art.158 D.P.R. n.115/2002.
  1. In particolare, da quel momento si è affermata illecitamente e contra legem la prassi amministrativa secondo cui per tutti i processi concernenti le controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego, nonché le controversie di previdenza ed assistenza obbligatorie dinanzi alla Corte di Cassazione, si è versato sempre il contributo unificato di € 1.036,00, mentre tale contributo non è affatto dovuto se il ricorrente lavoratore non supera il reddito “personale” (e non del nucleo familiare) annuale di € 34.585,23, quale risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi; nel caso di superamento del reddito individuale, invece, andrebbe versato (soltanto) il contributo di € 518 se ci manteniamo nello scaglione delle cause di valore indeterminabile (art.13, co.1, e art.9, co.1-bis, D.P.R. n.115/2002).
  1. La protesta della Corte di appello di Milano – Sezione lavoro rispetto all’ingerenza del Presidente della stessa Corte sui processi in corso portava il giorno dopo, 16 maggio 2012, con sentenza n.860/2012, depositata l’11 giugno 2012, la CDA meneghina a confermare l’orientamento della sentenza n.505/2010. La Corte di appello di Milano ribadiva che l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 si applicava soltanto a decorrere dal 1° aprile 2009 e quindi non aveva né letteralmente né logicamente natura retroattiva. La sentenza negativa per il lavoratore n.839/2012 della CDA di Milano veniva depositata soltanto in data in data 19/7/2013, dopo ben 14 mesi. La Corte di appello di Milano – Sezione lavoro tornava anche al precedente orientamento sul riconoscimento dell’anzianità di servizio del personale supplente scolastico, favorevole per i lavoratori prima dell’era Canzio.
  1. Anche in Cassazione si tentava di porre un argine alla deriva autarchica della linea “Canzio” sul diniego di ogni tutela del precariato pubblico scolastico e di Poste, organizzando un Convegno il 14 giugno 2012 su “Il lavoro a termine nelle pubbliche amministrazioni: profili discriminatori”, svoltosi proprio nell’Aula Magna della Suprema Corte, organizzato da Rivista giuridica del lavoro, Magistratura democratica e Agi Lazio, Presieduto dal dott. Sergio Mattone. In quella sede tutti i relatori sostennero che la Corte di giustizia aveva affermato principi opposti a quelli affermati nella sentenza Canzio sul precariato scolastico, in direzione di un rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori pubblici precari.
  1. Puntualmente, sei giorni dopo la Cassazione con sentenza n.10127[27] del 20 giugno 2012, con il solito sistema di fissare a tempo di record dopo soli cinque mesi dall’iscrizione a ruolo della causa la discussione del ricorso, confermava la linea “Canzio” sul diniego assoluto di tutele antiabusive per i supplenti della scuola pubblica, affermando che il sistema di reclutamento scolastico era legittimo e compatibile con l’ordinamento comunitario e con le sentenze Angelidaki e Kücük[28] della Corte di giustizia e diffidando i Giudici nazionali a non rivolgersi alla Corte di Lussemburgo per chiedere chiarimenti, perché la sentenza Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio della Cedu, secondo la Suprema Corte, consentiva il legittimo e motivato rifiuto del rinvio pregiudiziale.
  1. Contestualmente, invece di fissare con urgenza la discussione del ricorso n.17638/2011 R.G. in cui erano state proposte tre questioni pregiudiziali Ue su fattispecie di contratti successivi acausali Poste, con sentenze nn.11658 e 11659 dell’11 luglio 2012 la Cassazione confermava l’orientamento espresso (nel dispositivo) nella sentenza n.839/2012 dalla CDA extra ordinem di Milano sulla legittimità dei singoli contratti acausali di Poste italiane ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, senza però richiamare l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 come misura preventiva.
  1. La reazione al diniego della tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori pubblici precari italiani nella giurisprudenza della Corte di giustizia, del Massimario della Cassazione, del Tribunale di Napoli e della Corte costituzionale, prima dell’era Renzi e del Jobs act

 

  1. Il commissariamento “temporaneo” della Sezione lavoro della Corte di appello di Milano e la violazione degli artt.6 e 13 della Convenzione EDU, per favorire l’esito positivo delle cause per lo Stato, venivano censurati da un articolo pubblicato sul n.8-9/2012 della Rivista specializzata “Il lavoro nella giurisprudenza”. La risposta del dott. Canzio sulla stessa Rivista con la pubblicazione degli atti della riorganizzazione dei ruoli di udienza si fondava essenzialmente sul fatto che la sua sentenza sulla scuola era stata confermata dalla Cassazione con la sentenza n.10127/2012. Nulla precisava sul cambio della giurisprudenza della Corte di appello sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001.
  1. Dapprima il Massimario della Cassazione con la relazione n.190 del 24 ottobre 2012, immediatamente dopo le quattro ordinanze di rinvio pregiudiziale Ue su scuola e pubblico impiego del gennaio 2014 del Tribunale di Napoli, poi la Corte costituzionale con l’ordinanza di rinvio pregiudiziale Ue n.207/2013 del 18 luglio 2013 e con la contestuale ordinanza n.206/2013, infine la sentenza Mascolo[29] della Corte di giustizia del 26 novembre 2014 concordavano sull’erroneità della sentenza Canzio e della sentenza n.10127/2012 della Cassazione sulla tutela effettiva antiabusiva dei docenti supplenti e sulla incompatibilità comunitaria del sistema di reclutamento scolastico.
  1. Con la sentenza n.28441 del 19 dicembre 2013 la Cassazione decideva, ancora una volta a tempo di record dopo pochi mesi dall’iscrizione a ruolo del ricorso n. 5018/2013 R.G., una fattispecie di contratti successivi Poste ex art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, rigettando la domanda del lavoratore. La Corte conferma la legittimità della liberalizzazione dei contratti a termine di Poste con la causale finanziaria e tace completamente sull’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001.
  1. La sentenza Carratù del 12 dicembre 2013 della Corte di giustizia, contestualmente, dichiarerà che Poste italiane italiane è organismo statale di diritto pubblico, come confermato anche dalla recentissima sentenza del 28 giugno 2016 n.13 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che richiama espressamente le decisioni della Corte di giustizia in materia di stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari anche di Poste italiane, come organismo nazionale di diritto pubblico.
  1. Il Jobs act renziano e i contratti acausali a termine: la sentenza Fiamingo della Corte di giustizia sul lavoro marittino e la sentenza n.19998/2014 della Cassazione

 

  1. Dopo l’entrata in vigore del Jobs act con il d.l. n.34/2014 e l’introduzione come regime ordinario della disciplina del contratto a tempo determinato dei c.d. rapporti a termine acausali ispirati alla causale finanziaria Poste, la Corte di giustizia con la sentenza Fiamingo[30] concedeva ancora un aiutino interpretativo alle imprese statali italiane (come nella vicenda Vino), in questo caso RFI, nelle problematiche questioni pregiudiziali sollevate dalla Cassazione della linea “Mattone” nel giugno-luglio 2013 sui contratti a termine acausali in materia di lavoro marittimo che, se accolta nella formulazione originaria della Cassazione, avrebbero determinato un effetto domino anche sulla giurisprudenza negativa per i lavoratori in materia di contratti acausali dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2011 e, quindi, dei contratti acausali appena introdotti dal Jobs act.
  1. La Corte europea sbaglia tutto il possibile in fatto, in diritto e sulla propria competenza e risponde al Giudice del rinvio non sull’applicabilità delle ragioni oggettive temporanee sin dal primo ed unico contratto a tempo determinato, ai sensi dell’art.1, commi 1 e 2, d.lgs. n.368/2001, come richiesto dalla Suprema Corte, ma sull’adeguatezza di tutela comunitaria della clausola di durata prevista dalla legislazione speciale – l’art.326 del codice della navigazione -, che non aveva alcuna attinenza con le fattispecie delle cause principali riguardanti tanti singoli contratti a termine acausali della durata di 78 giorni con un intervallo l’uno dall’altro ben superiore a 60 giorni e, quindi, al di fuori della nozione di contratti successivi enunciata dalla sentenza Adeneler della Corte di giustizia. La prassi organizzativa di RFI, con la complicità degli uffici statali per il reclutamento della gente di mare, prevedeva infatti una rotazione costante del personale precario marittimo e la precarizzazione indefinita dei rapporti di lavoro.
  1. La sentenza Fiamingo della Corte di giustizia è stata immediatamente censurata per i suoi non casuali errori pro-Jobs act e il Presidente del Collegio della III Sezione, la stessa che aveva deciso la sentenza Carratù e che avrebbe deciso la sentenza Mascolo, fu costretto con ordinanza del 17 settembre 2014 ad ammettere l’errore in fatto commesso al punto 20 della sentenza Fiamingo e a correggerlo, ammettendo indirettamente i clamorosi errori in diritto sulla compatibilità Ue della clausola di durata di un anno prevista dall’art.326 cod.nav., inapplicabile al caso di specie.
  1. Ma l’ammissione della Corte di giustizia di aver scritto una sentenza sbagliata in diritto perché errata in fatto non è stata sufficiente per far tornare la Cassazione sulla linea “Mattone”.
  1. Infatti, in perfetta coerenza con i voli pindarici e gli svarioni interpretativi della sentenza Fiamingo, con la sentenza n.19998 del 2014 la Cassazione affermava, per la prima volta, che l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, introdotto dall’art.1, comma 40, della legge 21 dicembre 2007, n.247 con decorrenza dal 1 gennaio 2008, si applicava retroattivamente come misura preventiva di durata massima complessiva dei contratti a tempo determinato successivi (36 mesi per mansioni equivalenti) anche ai contratti a tempo determinato acausali di Poste italiane ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n. 368/2001 e conclusi prima del 1/1/2008, dopo una fase transitoria di 15 mesi (e quindi a decorrere dal 1/4/2009), periodo durante il quale i precedenti rapporti a termine non si calcolano ai fini del superamento del servizio dei 36 mesi.
  1. Ancora una volta, veniva decisa prima una causa iscritta a ruolo con il n.6622/2012 R.G. successivamente al ricorso n.17638/2011 R.G., in cui invece venivano presentate le pregiudiziali Ue poi rigettate ingiustificatamente dalla sentenza n.11374/2016 delle Sezioni unite (v. infra).
  1. La riattivazione dei giudizi su contratti successivi acausali Poste pendenti in Cassazione fino alle ordinanze interlocutorie alle Sezioni unite, dopo le sentenze Mascolo e Commissione contro Granducato di Lussemburgo della Corte di giustizia. La sentenza n.260/2015 della Corte costituzionale
  1. Con istanza del 15 marzo 2015 sia la ricorrente nel giudizio n.17638/2011 R.G. (decisa con la sentenza n.11374/2016 delle Sezioni unite) sia i ricorrenti delle altre cause decise con le sentenze nn.13375-13376-13529/2016 delle Sezioni unite chiedevano la fissazione dell’udienza di discussione, affermando l’inapplicabilità alla fattispecie della sentenza n.19998/2014 della Cassazione sull’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, ratione temporis e per la irretroattività della norma in senso sfavorevole ai lavoratori.
  1. Rappresentavano i ricorrenti che la Cassazione, dopo quasi quattro anni dal deposito del ricorso n.17368/2011 R.G., aveva deciso, rigettando le domande dei lavoratori, controversie con unico contratto ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 e che la giurisprudenza della Corte di giustizia invece imponeva le ragioni oggettive in assenza di altre misure, richiamando all’uopo le sentenze della Corte di giustizia Mascolo e Commissione c. Granducato di Lussemburgo[31] sulla mancanza di misure preventive antiabusive per i lavoratori saltuari dello spettacolo.
  1. Contestualmente, la Cassazione (Sezione lavoro, sentenze 30 luglio 2013, n. 18263, e 26 maggio 2011, n. 11573; sentenze 19 maggio 2014, n. 10924, 12 maggio 2014, n. 10217, 27 marzo 2014, n. 7243, 20 marzo 2014, n. 6547, 12 marzo 2014, n. 5748) radicava l’orientamento favorevole ai lavoratori pubblici precari dello spettacolo alle dipendenze delle Fondazioni lirico-sinfoniche – Organismi nazionali di diritto pubblico secondo la sentenza n.153/2011 della Corte costituzionale, come Poste italiane è Organismo nazionale di diritto pubblico secondo la sentenza Carratù della Corte di giustizia e secondo la sentenza n.3/2016 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato -, dichiarando illegittimi per vizio genetico cioè per mancanza di ragioni oggettive temporanee per ogni singolo contratto a tempo determinato anche di breve durata, nonostante la normativa del settore (art.3, comma 6, d.l. n.64/2010 e art.11, comma 4, d.lgs. n.368/2001).
  1. Era la identica situazione, dunque, dei lavoratori assunti con l’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 (nell’interpretazione di favore erariale della Cassazione di normativa autonoma rispetto all’art.1, commi 1 e 2, d.lgs. n.368/2001), che non prevedeva alcuna misura preventiva escludendo espressamente sia l’applicabilità delle ragioni oggettive e della regola del contratto a tempo indeterminato di cui all’art.1, commi 01 e 1, d.lgs. n.368/2001 sia l’applicabilità delle norme sulla successione dei contratti di cui all’art.4 e 5 d.lgs. n.368/2001.
  1. L’unica differenza tra le due categorie di lavoratori pubblici precari assunti con contratti di breve durata era nei numeri: decine di migliaia ogni anno dal 2006 al 2009 per Poste italiane, «un ristretto numero di lavoratori ben individuabili nominativamente» come evidenzia l’ordinanza n.234/2014 della Corte di appello di Firenze nel rinvio costituzionale sulla stabilizzazione dei precari delle Fondazioni di produzione musicale.
  1. Alla prima udienza di discussione del 4 giugno 2015 la ricorrente del giudizio n.17638/2011 R.G. e i ricorrenti delle altre quattro cause sui contratti successivi acausali Poste insistevano nell’accoglimento delle tre istanze pregiudiziali Ue già proposte nel ricorso n.17368/2011 R.G., riproposte nella 1ª memoria ex art.378 c.p.c., in cui aggiungevano due nuove questioni pregiudiziali di compatibilità Ue in relazione ad ulteriore normativa interna (art.1, comma 2, d.lgs. n.23/2015) intervenuta medio tempore in favore di Poste italiane, e sottolineavano ancora una volta l’inapplicabilità ratione temporis alla fattispecie di causa dell’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001.
  1. Il Sostituto Procuratore generale nelle sue conclusioni, dott. Giacalone, aveva concluso evidenziando che, allo stato della consolidata giurisprudenza della Cassazione sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, nessuno dei cinque ricorsi non avrebbero potuto essere accolti e, «proprio per questo motivo, la Procura generale nulla osta acchè la causa venga rimessa alle Sezioni unite per l’eventuale rimessione alla Corte di giustizia Ue sulla base delle istanze pregiudiziali proposte dalla parte ricorrente».
  1. All’esito dell’udienza del 4 giugno 2015 la Cassazione con ordinanza interlocutoria n.18782/2015[32] ha rimesso la causa n.17638/2011 R.G. e le altre quattro cause sulla successione dei contratti acausali Poste alle Sezioni unite, per verificare la compatibilità con il diritto dell’Unione europea dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 e dell’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, come questione di massima di particolare rilevanza, «anche in relazione alla successione di contratti a tempo determinato stipulati ai sensi del Decreto Legislativo n. 368 del 2001, articolo 2, comma 1 bis, come modificato dalla Legge n. 266 del 2005, ….se le ricordate previsioni di durata massima totale dei contratti a tempo determinato successivi, ancorchè riconducibili all’ambito della clausola 5, punto 1, lettera b), dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, di cui alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28.6.1999, costituiscano tuttavia una misura adeguata per prevenire e punire l’uso abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, dovendo al riguardo considerarsi che dette misure sono contemplate in presenza di una disciplina generale (Decreto Legislativo n. 368 del 2001, articolo 5, comma 3) che, in caso di riassunzione a termine, contempla, perché il contratto successivo non sia da considerarsi a tempo indeterminato, intervalli tra un contratto e l’altro considerevolmente più brevi, di dieci o venti giorni a seconda della durata del contratto precedente.».
  1. Nelle cinque ordinanze interlocutorie la Cassazione sottolineava che «trattasi di questione di massima di particolare importanza, essendo inerente a un contenzioso di natura seriale già cospicuo e destinato verosimilmente ad ulteriore incremento, in presenza del quale appare necessario scongiurare l’eventuale formarsi di contrasti interpretativi nella giurisprudenza di legittimità.».
  1. La rimessione alle Sezioni unite non era giustificata da contrasti interpretativi nella giurisprudenza della Cassazione, ma soltanto dalla proposizione delle istanze pregiudiziali Ue mai proposte in precedenza, poichè la Cassazione aveva sempre rigettato i ricorsi dei lavoratori assunti da Poste italiane ai sensi dell’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 sia nel caso di un unico contratto a tempo determinato (Cassazione, sentenze nn.11658/2012, 11659/2012, 13221/2012, 19688/2014, 16510/2015, 20858/2015; ordinanze nn.6584/2015, 6590/2015, 18293/2015, 18294/2015, 2324/2016, 3/2016, 26160/2015, 25836/2015, 24877/2015, 24240/2015) sia nel caso di pluralità di contratti (Cassazione, sentenze n.28441/2013, 19998/2014, 13609/2015, 21013/2015; ordinanza n.17925/2015), condannandoli alle spese del giudizio.
  1. Con sentenza n.260 dell’11 dicembre 2015 sui lavoratori saltuari dello spettacolo alle dipendenze delle Fondazioni lirico-sinfoniche la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la solita norma interpretativa retroattiva del 2013 che aveva tentato di neutralizzare le sentenze della Cassazione favorevoli ai lavoratori.
  1. La Consulta ha valorizzato le ragioni oggettive temporanee come misura effettiva (e indispensabile) di legittima apposizione del termine, svalutando di fatto tutta la legislazione del Jobs act nella disciplina del contratto a tempo determinato di cui agli artt. 19-29, D.Lgs. n. 81/2015, fondata sulla dichiarata (sul piano della comunicazione mediatico-istituzionale), ma non scritta acausalità dei contratti temporanei (anche con contratto di somministrazione di lavoro a t.d.) e sulla conseguente indifferenza “ontologica” tra proroghe e rinnovi contrattuali.
  1. Nella parte finale della sentenza la Consulta chiarisce il rapporto tra diritto “comunitario” e normativa interna di recepimento della direttiva 1999/70/CE, con il richiamo alla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo: «Del resto, con riguardo ai lavoratori dello spettacolo, la Corte di Giustizia ha valorizzato il ruolo della ‘ragione obiettiva’ come mezzo adeguato a prevenire gli abusi nella stipulazione dei contratti a tempo determinato e come punto di equilibrio tra il diritto dei lavoratori alla stabilità dell’impiego e le irriducibili peculiarità del settore (sentenza 26 febbraio 2015, nella causa C-238/14, Commissione contro Granducato di Lussemburgo, che riprende le affermazioni della sentenza della Corte di Giustizia 26 novembre 2014, nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri).».
  1. Inaspettamente, inaugurando la nuova linea “Canzio” della Cassazione (divenuto dal 7 gennaio 2016 il Primo Presidente della Suprema Corte fino al 31 dicembre 2016), la sentenza n.260/2015 della Corte costituzionale viene contestata soltanto da interpreti interni alla Corte di legittimità[33], chiaro preludio alla svalutazione della sentenza Mascolo della Corte di giustizia e di tutta la giurisprudenza favorevole ai lavoratori della Corte europea (compresa la sentenza Carratù per Poste italiane e l’ordinanza Papalia per il precariato pubblico) e all’esito interpretativo delle sentenze delle Sezioni unite n.5072/2016 sul precariato pubblico e n.11374/2016 sui contratti acausali dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, che sono l’epilogo abbastanza evidente della descritta demolizione delle regole processuali del lavoro e del principio dell’imparzialità del giudice promossa dal Presidente Canzio nel 2012 sul contenzioso seriale nei confronti dello Stato.
  1. La rinuncia delle Sezioni unite ad esercitare le funzioni giurisdizionali e il ruolo di Giudice di ultima istanza imparziale, per coprire gli abusi di Stato: le sentenze sul precariato pubblico e sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001
  1. Con le sentenze nn.4911-4912-4913-4914-4015/2016 del 14 marzo 2016 e con la sentenza n.5072/2016 del 15 marzo 2016, in cause tutte discusse all’udienza del 1 dicembre 2015, le Sezioni unite della Cassazione, in contrasto con la sentenza Mascolo della Corte di giustizia e con la sentenza n.260/2015 della Corte costituzionale, hanno affermato che i lavoratori pubblici a tempo determinato, compresi quelli che hanno superato i 36 mesi di servizio, nei cui confronti vi è stato utilizzo abusivo dei rapporti di lavoro, non possono beneficiare della stabilità lavorativa prevista dagli artt.1, comma 2, e 5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, perchè per accedere al pubblico impiego vi sarebbe necessità del pubblico concorso (che tutti i lavoratori avevano espletato e superato) e che, in mancanza di norme sanzionatorie per il pubblico impiego e non potendo applicare l’equivalenza sanzionatoria con i privati, il risarcimento dei danni non compensa il posto di lavoro perduto ma il c.d. danno “comunitario”, individuato nella misura da 2,5 a 12 mensilità di retribuzione in applicazione analogica e parziale dell’art.32, comma 5, della legge 183/2010, norma abrogata dall’art.55 del d.lgs. n.81/2015.
  1. Nei giudizi definiti dalle sentenze nn.4911-4912-4913-4914-4915/2016 della Cassazione a Sezioni unite sul pubblico impiego sono state proposte nelle rispettive memorie ex art.378 c.p.c. istanze pregiudiziali Ue, ma la Corte di cassazione ha rifiutato immotivamente di proporre le questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia sul precariato pubblico.
  1. La causa n.17638/2011 R.G. e le altre quattro cause sui contratti successivi acausali Poste di cui alle cinque ordinanze interlocutorie venivano nuovamente discusse all’udienza pubblica del 5 aprile 2016 davanti alle Sezioni unite della Cassazione. Nella seconda memoria ex art.378 c.p.c. venivano riproposte le cinque questioni pregiudiziali Ue già presentate nella prima memoria ex art.378 c.p.c., con l’aggiunta di altre due questioni pregiudiziali, una delle quali riguardava espressamente la compatibilità comunitaria dell’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001.
  1. La norma, peraltro, era chiaramente priva di efficacia retroattiva in danno dei lavoratori, trattandosi invece di sanzione che si aggiungeva a quella già prevista dall’art.1, commi 1 e 2, d.lgs. n.368/2001 delle ragioni oggettive temporanee sin dal primo ed eventualmente unico contratto a tempo determinato. Si precisava, infatti, nella memoria che la Corte costituzionale con la sentenza n.260/2015 e poi la stessa Corte di cassazione a Sezioni unite con la sentenza del 15 marzo 2016 n.5072 avevano affermato il principio delle ragioni oggettive temporanee sin dal primo e unico contratto a termine come unica sanzione effettiva nell’ordinamento italiano contro l’abusivo utilizzo dei contratti a tempo determinato, ai sensi dell’art.1, commi 1 e 2, d.lgs. n.368/2001.
  1. Il P.M. dott. Giacalone, diversamente dalle conclusioni rassegnate all’udienza del 4 giugno 2015, concludeva per il rigetto dei ricorsi. Affermava sostanzialmente l’inconsistenza della direttiva 1999/70/CE ai fini del riconoscimento delle tutele effettive, la fumosità dell’accordo quadro comunitario, parodisticamente qualificato “accordo-schizzo”, la correttezza delle due ordinanze Vino 1 e Vino 2 della Corte di giustizia, la legittimità del comportamento di Poste italiane perché (letteralmente) «in Vino veritas».
  1. Nelle note di replica alle conclusioni del P.M. si evidenziava che il P.M. assurdamente invitava le Sezioni unite a violare in maniera flagrante la normativa comunitaria e, in particolare, la clausola 5, nn.1 e 2, dell’accordo quadro, come interpretata dalla Corte di giustizia nella sentenza Adeneler e l’art.267, comma 3, TFUE.
  1. Tre giorni dopo l’udienza davanti alle Sezioni unite sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, l’8 aprile 2016, viene organizzato dalla formazione decentrata della Cassazione un Convegno dal titolo “Diritti fondamentali e Corti Supreme europee”. La prof.Sciarra, Estensore della sentenza n.260/2015 sulle Fondazioni Enti lirici, nella sua lectio magistralis sulla giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di diritti fondamentali, risponde seccamente alle censure della Perrino, organizzatrice del Convegno, e, alla presenza del Vice Presidente della CGUE, prof. Tizzano, coautore della sentenza Mangold, afferma che la sentenza “Poste”/Mangold della Grande Sezione era una decisione sbagliata, che è stata ampiamente superata dalla successiva giurisprudenza di Lussemburgo, confermando la correttezza interpretativa della linea “Mattone” del dialogo attivo tra Corte europea e Cassazione e sconfessando la linea”Canzio” della prevalenza dei presunti interessi di Stato e della totale autonomia interna della giurisdizione nazionale nell’applicare la normativa senza tener conto dei principi comunitari e della corretta applicazione delle direttive sociali.
  1. Contestualmente, con uno straordinario atto di stile e di dignità il Presidente della Repubblica, con il decreto n. 29/C/2016 di cui ha dato informazione soltanto il giornale Il Fatto quotidiano, ha disposto la stabilizzazione dei precari del Quirinale che hanno superato i 36 mesi di servizio, in applicazione della normativa interna  e dei principi europei, nonostante l’Organo costituzionale non sia obbligato ad attuarli. Il Presidente Mattarella ha lanciato in questo modo un chiaro segnale nella direzione della stabilizzazione di tutti i rapporti precari nel pubblico impiego, anche nei confronti della Corte costituzionale, di cui era Giudice ed Estensore dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale Ue, decisa dalla sentenza Mascolo, che le Sezioni unite si rifiutano di applicare assecondando il legislatore della pessima riforma della cattiva scuola di cui alla legge n.107/2015 e della precarizzazione dei rapporti di lavoro pubblici e privati del Jobs act.
  1. Il Presidente risponde così, molto direttamente, al ricorso n.2/2015 del 16 luglio 2015, per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, proposto davanti alla Corte costituzionale dalle Sezioni unite della Cassazione nei confronti della Presidenza della Repubblica sull’attribuzione alla Presidenza della autodichia, cioè della tutela giurisdizionale comune in riferimento alle controversie di lavoro insorte con la stessa Presidenza della Repubblica. Il ricorso è stato discusso all’udienza pubblica del 19 aprile 2016, con una splendida lectio magistralis dell’ultrasettantenne prof. Amato, Relatore della causa, che dimostra come la nomofilachia, l’amore per il diritto e la sua corretta applicazione, non ha età a meno che non sia condizionata da mere (legittime, ma tardive, rispetto ai limiti fissati per il pensionamento) aspettative di progressione di carriera o di esercizio di potere personale, ignorando o calpestando le regole sostanziali o processuali, la Costituzione e la normativa sovranazionale.
  1. Con sentenza del 31 maggio 2016 n.11374 la Corte di cassazione a Sezioni unite rigettava il ricorso n.17368/2011 R.G., compensando tra le parti le spese del giudizio.
  1. In particolare, veniva dichiarato infondato il primo e principale motivo del ricorso, in cui si era denunciata la violazione dell’art.1, commi 1 e 2, d.lgs. n.368/2001, perchè l’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 rappresentava una autonoma causale di ricorso al contratto a tempo determinato e non si aggiungeva alle ragioni oggettive temporanee previste dall’articolo precedente.
  1. La acausalità dei due contratti a tempo determinato impugnati viene compensata, secondo la sentenza n.11374/2016 delle Sezioni unite, dall’applicazione anche alla fattispecie di causa della clausola di durata di cui all’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 (punto 59), nonostante il ricorso introduttivo fosse stato depositato in primo grado il 17 luglio 2007, quando l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 non era stato ancora partorito dal legislatore della legge n.247/2007.
  1. La Cassazione a Sezioni unite ha rigettato (ingiustificatamente) tutte e sette istanze pregiudiziali presentate dalla lavoratrice, con motivazione solo apparente.
  1. In particolare, per quanto riguarda quelle sulle nozioni comunitarie di ragioni oggettive e di contratti successivi la Cassazione a Sezioni unite sostiene ai punti 67-76 che non erano applicabili i principi enunciati nella sentenza Adeneler della Corte di giustizia, perchè l’ordinamento interno prevede una misura preventiva adeguata quale l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, ai sensi della clausola 5, punto 1, lett.b), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.
  1. Tuttavia, contraddittoriamente la Suprema Corte rigetta (punto 79) anche la specifica pregiudiziale sulla compatibilità Ue dell’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 con la clausola 5, punto 1, lett.b), dell’accordo quadro perchè “non rilevante” ai fini della decisione, in quanto le mansioni svolte nei due contratti a termine impugnati erano equivalenti.
  1. Gli errori irreversibili della sentenza n.11374/2016 delle Sezioni unite della Cassazione sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 e sui contratti acausali del Jobs act
  1. Quando una Corte superiore nazionale, nel suo massimo consesso come nel caso delle Sezioni unite della Suprema Corte, si pronunzia su una questione che riguarda un significativo contenzioso con migliaia o decine di migliaia di controversie, compito del difensore della parte debole (il lavoratore) uscita soccombente dalla vertenza “collettiva” è, normalmente, quello di spiegare ai propri clienti le motivazioni della sentenza e comunque di accettarne il verdetto, per quanto riguarda le vie ordinarie di soluzione del diritto preteso in giudizio e non riconosciuto, in via definitiva, dalla massima autorità giurisdizionale nazionale.
  1. Non è questo il caso della sentenza n.11374/2016 delle Sezioni unite sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, così come non è questo il caso della sentenza n.5072/2016 delle Sezioni unite sul precariato pubblico, quest’ultima peraltro già contestata pubblicamente dagli scriventi come sentenza “contra legem” proprio all’udienza del 17 maggio 2016 davanti alla Corte costituzionale in sede di discussione delle cause sui supplenti della scuola.
  1. La sentenza n.11374/2016 della Cassazione a Sezioni unite, infatti, riesce nell’impossibile impresa di violare contemporaneamente:
  • il diritto dell’Unione europea e le sentenze pertinenti della Corte di giustizia (Sorge, Carratù e Mascolo) nonché l’art.267, comma 3, del Trattato per il funzionamento dell’Unione europea e l’obbligo del Giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale;
  • il diritto convenzionale della Cedu e in particolare gli artt.6, 13 e 14 della Convenzione sul giusto processo e il principio di non discriminazione, nonché l’art.1 del 1° Protocollo Cedu;
  • infine il diritto interno e l’interpretazione sistematica del d.lgs. n.368/2001 attraverso la (non) applicazione dell’unica misura preventiva antiabusiva effettiva – le ragioni oggettive temporanee sin dal primo ed eventualmente unico contratto a tempo determinato, ai sensi dell’art.1, commi 1 e 2, d.lgs. n.368/2001 – individuata dalla giurisprudenza consolidata della Cassazione a partire dalla fondamentale sentenza n.12985/2008 della linea “Mattone” e confermata, evidentemente con scarsa convinzione prospettica, nella sentenza n.5072/2016 delle Sezioni unite sul precariato pubblico, in cui l’art.5, comma 4-bis, d.lgs.n.368/2001 integra, si aggiunge alla tutela già riconosciuta nell’ordinamento interno dalla sapiente opera applicativa sul piano dell’interpretazione sistematica della direttiva 1999/70/CE.
  1. Anche nella sentenza delle Sezioni unite sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 si usa il verbo “integrare” per collegare la clausola di durata dei 36 mesi con le ragioni oggettive, violando però il fondamentale principio della certezza del diritto e della non retroattività delle leggi civili, se non quando espressamente previsto.
  1. E l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 non è una norma retroattiva, se non a decorrere dal 1 aprile 2009 e solo nell’interesse dei lavoratori non di Poste italiane, perché consente di recuperare ai fini del computo dei 36 mesi i periodi di servizio alle dipendenze dello stesso datore di lavoro e con mansioni equivalenti cessati prima del 1/1/2008, data di entrata in vigore della legge n.247/2007.
  1. Sicuramente tutti i rapporti a termine stipulati ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 dal 1/1/2006 al 31/12/2007 erano privi della tutela “aggiuntiva” dell’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001.
  1. Come il caso clamoroso della lavoratrice Frappampina della sentenza n.11374/2016, che aveva impugnato i due contratti a tempo determinato del 2007 (dopo aver prestato servizio precedente per ben 54 mesi alle dipendenze di Poste, salvo la sottoscrizione del verbale di conciliazione sindacale che aveva “sanato” le irregolarità dei precedenti rapporti di lavoro a termine per essere inserita in una graduatoria nazionale che, invece di riservarle un nuovo contratto a tempo indeterminato, le aveva consentito soltanto due nuove assunzioni a termine acausali). Lavoratrice che, dunque, aveva superato i 36 mesi di servizio con mansioni equivalenti ma non poteva invocare l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 perché la norma in questione non esisteva al momento del deposito del ricorso giudiziario, avvenuta in data 17 luglio 2007 oltre cinque mesi prima del 1/1/2008.
  1. Sul punto, la sentenza n.11374/2016 delle Sezioni è obiettivamente priva di ogni dignità etica oltre che di contenuti giuridici compatibili con i fondamenti principi dell’ordinamento costituzionale.
  1. Quanto poi all’effettività dell’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 come adeguata misura preventiva e sanzionatoria, la stessa Cassazione, recependo le indicazioni della più attenta dottrina[34], nella recente Rassegna della giurisprudenza civile del gennaio 2015 l’Ufficio del Massimario[35] a segnalato, anche in relazione all’entrata in vigore del d.l. n.34/2014, la non effettività come misura preventiva effettiva dell’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, a pag. 278 al punto 2.1: «2.1. Il contratto di lavoro a tempo determinato. Sulla disciplina del rapporto a termine – già oggetto di ritocco con la legge “Fornero” nel 2012 in chiave di moderata liberalizzazione, mediante l’introduzione nel sistema del contratto acausale della durata di un anno – il legislatore è intervenuto prima dell’estate (con il d.l. 20 marzo 2014, n. 34, conv. in legge 16 maggio 2014, n. 78, recante “Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese”), ampliando l’estensione della predetta durata fino a tre anni (con immaginabili effetti a cascata anche sulla disciplina dei licenziamenti, il cui presumibile, progressivo depotenziamento deriverà dall’utilizzo massiccio di rapporti a termine anche in successione, non operando il limite massimo dei trentasei mesi, stando all’opinione che sembra attualmente prevalere, in caso di ripetute assunzioni per lo svolgimento, di volta in volta, di mansioni non equivalenti del prestatore); onde è plausibile ritenere che il contenzioso classico – vertente, in prevalenza, sulla sussistenza, o meno, nonché sulla valutazione delle cause giustificative, e, più di recente, sulla determinazione delle conseguenze derivanti dalla declaratoria di illegittimità della clausola appositiva del termine – subirà un drastico ridimensionamento.».
  1. E’, dunque, la legittimazione del Jobs act e dell’azione governativa di demolizione delle tutele dei diritti fondamentali dei lavoratori precari quella che emerge dalla sentenza n.11374/2016 delle Sezioni unite, dal momento che, successivamente alla sentenza Carratù su un unico contratto a tempo determinato per ragioni sostitutive ai sensi dell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 e contestualmente all’ordinanza D’Aniello[36] della Corte di Lussemburgo su un unico contratto a tempo determinato con causale finanziaria, con d.l. n.34/2014 (convertito con modificazioni nella legge n.78/2014) prima e poi con il d.lgs. n.81/2015 il legislatore “avrebbe” liberalizzato il ricorso al contratto a tempo determinato a tutte le imprese, eliminando la giustificatezza causale e temporanea dell’apposizione del termine e generalizzando la “acausalità”, con l’unica presunta misura preventiva antiabusiva della durata massima complessiva dei rapporti o contratti successivi di 36 mesi, di cui all’art.5, comma 4 bis, d.lgs. n.368/2001, peraltro soggetta a deroghe quantitative (accordo alla DTL o accordo sindacale) e qualitative (impiego con mansioni non equivalenti) che rendono tale disposizione ineffettiva rispetto al quadro comunitario, a maggior ragione nel nuovo testo dell’art.19, comma 2, primo periodo, d.lgs. n.81/2015, dove ai fini del superamento dei 36 mesi vengono computate solo le mansioni «di pari livello e categoria legale».
  1. Il Massimario della Cassazione prende atto che l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 è norma inidonea e può essere utilizzata in modo fraudolento (stessa ammissione la ritroviamo, incredibilmente, nella sentenza n.11374/2016 delle Sezioni unite) e quindi non è misura preventiva effettiva ai sensi della clausola 5, n.1, lett.b), dell’accordo quadro, però è una disposizione che fa comodo perché “il contenzioso subirà un drastico ridimensionamento”.
  2. La linea “Canzio”, appunto, della riduzione del contenzioso cancellando le tutele dei soggetti più deboli.
  1. Infatti, l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 è stato interpretato dalle Sezioni unite solo ed esclusivamente in funzione dell’obiettivo di un drastico ridimensionamento, che equivale ad un drastico annullamento della tutela dei diritti fondamentali.
  1. In particolare, nel pubblico impiego il superamento della clausola di durata dei 36 mesi non comporta la costituzione a tempo indeterminato dei contratti a termine successivi, ma soltanto un risarcimento dei danni da 2,5 a 12 mensilità sulla base dell’art.32, comma 5, della legge n.183/2010 ormai abrogata e quindi inapplicabile, ma che il legislatore delle Sezioni unite con la sentenza n.5072/2016 ha riesumato dalla necrologia normativa in cui sembrava sepolta.
  1. Con interpretazione nel contempo balzana e canzonatoria, invece, per i contratti a tempo determinato del pubblico impiego postale dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 la regola dei 36 mesi viene applicata sanzionando retroattivamente il lavoratore con il rigetto della domanda di conversione, nonostante egli abbia impugnato contratti unici o successivi scaduti entro il 1/1/2008 in un momento storico in cui la norma di “sfavore” retroattivo non esisteva.
  1. Altro momento di riflessione con nessuna valenza ermeneutica delle Sezioni unite nella sentenza n.11374/2016 è quando si afferma che i contratti a tempo determinato stipulati ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 nella fattispecie di causa sono legittimi perché rispettosi dell’intervallo minimo di 10 giorni previsto dall’art.5, comma 3, d.lgs. n.368/2001: è la prova provata inesistenza di seri contenuti giuridici di questa sconcertante decisione, perché l’art.5, comma 3, d.lgs. n.368/2001 riguarda soltanto i contratti a tempo determinato stipulati ai sensi dell’art.1 dello stesso decreto, cioè soltanto quelli stipulati per ragioni oggettive temporanee e non quelli acausali.
  1. Ovviamente queste considerazioni non servono per sperare di riprendere il contenzioso sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 e sui contratti acausali del Jobs act davanti alla magistratura del lavoro. Sotto questo profilo le sentenze delle Sezioni unite sulla causale finanziaria contribuiscono a semplificare il quadro e costituiscono, per tutti i lavoratori, l’ultimo rimedio interno esperibile secondo l’ordinario percorso della tutela dei diritti fondamentali davanti al Giudice del lavoro.
  1. In fondo, le Sezioni unite del 2016 non hanno fatto altro che rispettare la volontà del legislatore del d.lgs. n.368/2001 prima, del legislatore della legge finanziaria n.266/2005 subito dopo, infine del legislatore del Jobs act del d.l. n.34/2014 e del d.lgs. n.81/2015, cioè quella di liberalizzare tutti i contratti a tempo determinato, particolarmente ma non esclusivamente quelli di Poste italiane nel cui contesto “culturale” è maturata la suddetta produzione normativa, utilizzando clausole generali di apposizione del termine senza nessuna misura preventiva effettiva, né le ragioni oggettive, né la durata massima complessiva, né il numero massimo dei rinnovi. E’ evidente che né l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 né, ancor meno, la quasi identica disposizione dell’art.19 d.lgs. n.81/2015 costituiscono una misura adeguata a prevenire gli abusi nella successione dei contratti a tempo determinato tutti legittimamente (secondo le Sezioni unite) acausali.
  1. Cancellando con un colpo di spugna la giurisprudenza della Cassazione sull’interpretazione sistematica del d.lgs. n.368/2001 alla luce della sentenza Adeneler della Corte di giustizia a partire dalla fondamentale sentenza n.12985/2008 fino alle stesse Sezioni unite n.5072/2016 sul precariato pubblico, le Sezioni unite sui contratti acausali di Poste attestano, sul piano della nomofilachia autentica della Corte di cassazione, hanno semplicemente certificato che per i contratti a tempo determinato stipulati ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 (e per ogni singolo contratto, perché viene meno anche la problematica della successione dei contratti) erano tutti legittimi e senza alcuna misura preventiva effettiva prevista dalla clausola 5, n.1, dell’accordo quadro comunitario recepito dalla direttiva 1999/70/CE, che, evidentemente, non risulta essere stata attuata dallo Stato italiano per i contratti a termine di Poste.
  1. La Cassazione a Sezioni unite con la sentenza n.11374/2016 ha violato, altresì, il principio di uguaglianza e non discriminazione di cui all’art.3 della Costituzione, in relazione alla violazione degli artt. 20, 21 e 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e delle clausole 4, n.1, e 5, nn.1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, recepito dalla direttiva 1999/70/CE, che corrispondono alle violazioni del combinato disposto dell’art.1 del 1° Protocollo CEDU e dell’art.14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
  1. Infatti le Sezione unite si sono rifiutate di applicare la stessa sanzione antiabusiva della costituzione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro applicata a tutti i lavoratori alle dipendenze di imprese private o pubbliche amministrazioni o assunti alle dipendenze di Poste italiane ai sensi dell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001, inventandosi la natura retroattiva di una norma, l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, che non ha mai avuto efficacia retroattiva se non nell’interesse del lavoratore e a decorrere dal 1 aprile 2009, e che si aggiungeva come misura preventiva a decorrere dal 1 aprile 2009 alla tutela delle ragioni oggettive temporanee prevista dall’art.1, commi 1 e 2, d.lgs. n.368/2001 (come peraltro precisato dalla sentenza n.5072/2016 delle Sezioni unite), con violazione gravissima e ingiustificabile dell’art.11 delle preleggi, nonché dell’art.6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
  1. Le Sezioni unite nella sentenza sui contratti acausali Poste hanno, inoltre, violato gli artt. 24, 111 e 117, comma 1, Cost., in relazione all’art.47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’art.4, comma 3, del Trattato di Lisbona sul principio di leale cooperazione con le Istituzioni comunitarie e all’art.267, comma 3, TFUE, che corrispondono alle violazioni del combinato disposto degli artt.6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul giusto processo, per l’ingiustificato rifiuto di operare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in particolare per quanto le questioni pregiudiziali ssulle nozioni comunitarie di ragioni oggettive e di contratti successivi già accolte dalla sentenza Adeneler della CGUE, nonchè la questione pregiudiziale n.4 della seconda memoria ex art.378 c.p.c. nel giudizio n.17638/2011 R.G. sulla compatibilità Ue dell’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, questione peraltro già sollecitata, perchè controversa come sanzione adeguata, dall’ordinanza interlocutoria n.18782/2015 della Cassazione.
  1. Ciò al solo fine di giustificare l’intenzione del legislatore di liberalizzare l’uso dei contratti a tempo determinato da parte di un unico datore di lavoro, Poste italiane, rifiutandosi la Cassazione a Sezioni unite di operare l’interpretazione adeguatrice della norma di favore dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 come disciplina aggiuntiva all’obbligo di specificazione delle ragioni oggettive di cui all’art.1, commi 1 e 2, d.lgs. n.368/2001, per favorire lo Stato – Poste italiane in violazione della giurisprudenza della Corte di giustizia nella sentenza Sorge e nella sentenza Carratù, su fattispecie di un unico contratto a tempo determinato con clausola generale ed astratta per generiche ragioni sostitutive stipulato sempre da Poste italiane, senza nessun collegamento con le effettive esigenze dell’attività di lavoro.
  1. In particolare, la clausola 5, n.1, lett.a), e nn.1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, recepito dalla direttiva 1999/70/CE, era stata specificamente esaminata in fattispecie di pluralità di contratti a tempo determinato stipulati con ricorso a clausola generale ed astratta (come nel caso dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001) con un intervallo minimo tra un contratto e l’altro di soli 20 giorni (come nel caso dell’art.5, comma 3, d.lgs. n.368/2001, che peraltro prevede per la fattispecie di causa la sufficienza dell’intervallo minimo di appena 10 giorni) dalla sentenza Adeneler della Corte di giustizia e la CGUE aveva dichiarato la normativa interna (greca, identica a quella italiana) in contrasto con le nozioni comunitarie di ragioni oggettive temporanee e di contratti successivi.
  1. Quindi, la normativa di diritto UE in causa era stata già oggetto di interpretazione della Corte di giustizia e l’applicazione corretta del diritto della UE si imponeva con tale evidenza da non lasciare spazio ad alcun ragionevole dubbio per accogliere il diritto della lavoratrice Frappampina con due contratti successivi del 2007, anche alla luce della sentenza Ferreira da Silva e Brito della Corte di giustizia, per cui nessuna delle eccezioni previste dalla giurisprudenza della CGUE per giustificare il rifiuto del rinvio pregiudiziale poteva essere applicata alla motivazione della sentenza della Sezioni unite della Cassazione n.11374/2016.
  1. Anzi l’esame delle eccezioni conferma la violazione ingiustificata dell’obbligo di rinvio pregiudiziale.
  1. Evidentemente, le Sezioni unite confidano sul fatto che nessun giudice nazionale possa sollevare le questioni pregiudiziali Ue negate sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, convinzione che era già ben presente nella sentenza n.10127/2012 della Cassazione sul precariato scolastico, travolta dalla sentenza Mascolo della Corte di giustizia. In questo caso, però, la convinzione delle Sezioni unite, via l’autorevolezza della decisione, hanno sicuramente un fondamento assoluto per quanto riguarda la magistratura del lavoro.
  1. Il rimedio interno per la violazione integrale e la mancata applicazione della direttiva 1999/70/CE relativamente ai contratti a tempo determinato stipulati ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001
  1. Ciascun lavoratore assunto da Poste italiane a tempo determinato dal 1/1/2006 ad oggi ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, sia che abbia ancora il giudizio pendente in Corte di appello o in Cassazione sia che non abbia alcun giudizio pendente o per non aver mai proposto l’azione giudiziaria o per averla proposta con esito sfavorevole, anche con sentenza passata in cosa giudicata, può promuovere, nel termine prescrizionale decennale per i contratti a termine cessati entro il 31 dicembre 2011 e nel termine prescrizionale di cinque anni per i contratti a termine cessati dal 1/1/2012, ai sensi dell’art. 4, comma 43, della l. 12.11.2011 n. 183 (cd. Legge di Stabilità 2012), l’azione di risarcimento dei danni nei confronti dello Stato italiano (Presidenza del Consiglio dei Ministri) presso il Tribunale ordinario di Roma (Giudice civile non specializzato) per mancata attuazione della direttiva 1999/70/CE, come già avvenuto nelle vicende dei medici specializzandi e dei lettori universitari di lingua straniera. Tale azione è ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia a partire dalla sentenza Francovich[37] fino alla sentenza Ferreira da Silva e Brito che, come ricordato, ha recentemente censurato lo Stato portoghese per la violazione flagrante della direttiva sui trasferimenti di azienda e dell’obbligo del Giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale.
  1. Il risarcimento dei danni che potranno essere richiesti allo Stato italiano possono essere agevolmente quantificati nella differenza tra la retribuzione che i lavoratori avrebbero avuto diritto di percepire da Poste italiane dal momento della cessazione del contratto a termine stipulato ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 e fino al momento dell’instaurazione della domanda giudiziaria, cui va aggiunta una somma equitativamente indicata per la mancata regolarizzazione contributiva del rapporto di lavoro come innanzi “fittiziamente” ricostruito, dedotto quanto percepito aliunde dal lavoratore per altra occupazione di lavoro. Inoltre, sempre a titolo di risarcimento dei danni in forma specifica, potrà essere richiesta la condanna dello Stato italiano a garantire al ricorrente un altro posto stabile nella pubblica amministrazione con mansioni equivalenti a quelle espletate presso Poste italiane oppure, in alternativa e fino alla stabilizzazione del lavoratore nei termini innanzi precisati, ad un risarcimento danni sostitutivo della retribuzione che avrebbe avuto diritto a percepire presso Poste italiane ove fosse stato stabilmente assunto (cfr. sentenza Scheefer[38] del Tribunale della funzione pubblica della Corte di giustizia).
  1. Tale azione è di gran lunga preferibile a quella, pure ammissibile ex art.2, comma 3, della legge n.117/1988 sulla responsabilità civile dei giudici davanti al Tribunale ordinario di Perugia, perché la responsabilità esclusiva e comunque prevalente della mancata attuazione della direttiva 1999/70/CE ai contratti acausali di Poste non è della Suprema Corte di cassazione, che avrebbe dovuto comunque svolgere un ruolo di supplenza legislativa per riconoscere una tutela negata dallo Stato-legislatore, ma dello stesso legislatore della legge finanziaria n.266/2005, che intendeva effettivamente liberalizzare i contratti a tempo determinato di Poste e ha continuato a farlo fino al 31 dicembre 2016, facendo sopravvivere l’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 nonostante l’abrogazione dell’intero decreto attuativo della direttiva 1999/70/CE.
  1. Peraltro, il Tribunale di Roma opera in composizione monocratica e consente anche l’attivazione del giudizio sommario di cognizione ai sensi dell’art.702-bis c.p.c., molto più veloce di quello ordinario, consentendo comunque la proposizione delle questioni pregiudiziali Ue negate dalle Sezione unite, come già avvenuto in Portogallo nel giudizio principale che ha portato alla sentenza Ferreira da Silva e Brito della Corte di giustizia, senza l’inevitabile condizionamento del Giudice di merito di provocare l’azione indiretta di recupero, nei confronti dei componenti del Collegio delle Sezioni unite della sentenza n.11374/2016, del risarcimento dei danni che lo Stato andrà a corrispondere al lavoratore. La responsabilità della mancata attuazione della direttiva 1999/70/CE è solo ed esclusivamente dello Stato-legislatore.
  1. Si evita, quindi, il giudizio collegiale davanti al Tribunale ordinario di Perugia e ogni ulteriore conseguenze negative anche nella serenità del giudicante. Inoltre, questa azione potrebbe portare, ove accolte le domande pregiudiziali Ue, anche ad un “ripensamento” da parte della Cassazione, improbabile, ma possibile.
  1. Il rimedio internazionale del ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo
  1. Sono già pendenti davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo due ricorsi proposti da lavoratori assunti a tempo determinato ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001, per la violazione della normativa convenzionale innanzi richiamata sul principio di uguaglianza e non discriminazione, con conseguente perdita definitiva del diritto richiesto e acquisito in base alla giurisprudenza costante della Cassazione sulle ragioni oggettive la cui mancanza o mancata specificazione giustifica la conversione a tempo indeterminato del primo e unico contratto a termine di Poste italiane, e del principio del giusto ed equo processo davanti ad un giudice imparziale.
  1. Il primo ricorso riguarda la fattispecie della lavoratrice della sentenza n.11374/2016 delle Sezioni unite, il cui ricorso è pervenuto a Strasburgo il 9 giugno 2016, otto giorni la comunicazione al difensore della sentenza della Cassazione; il secondo riguarda la fattispecie di un lavoratore che ha promosso ricorso per cassazione attualmente pendente impugnando otto contratti acausali Poste, con cinque pregiudiziali Ue che sono identiche a quelle già rigettate dalla Cassazione.
  1. Pertanto, si sono esauriti anche nel 2° caso i rimedi interni ed è ammissibile il ricorso alla Corte EDU. E’ stata richiesta alla Corte di Strasburgo anche la procedura pilota di più rapida definizione del giudizio, in presenza di una pluralità consistente di ricorrenti in posizioni identiche e della natura sistematica della violazione della Convenzione da parte della Cassazione italiana, al punto da configurare una violazione dell’art.1 Cedu.
  1. Sul punto dell’applicazione dell’art.6, par.1, della Convenzione, per violazione dell’art. 267, comma 3, del TFUE per il rifiuto ingiustificato del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia da parte del Giudice nazionale di ultima istanza, peraltro, la Corte EDU si è già pronunciata condannando l’Italia con la sentenza Schipani del 21 luglio 2015 sul ricorso n. 38369/2009 e con la sentenza Dhabhi dell’8 aprile 2014 sul ricorso n.17120/09.
  1. Nel caso in cui la Corte EDU dovesse accertare la violazione della normativa convenzionale denunciata, i ricorrenti potranno richiedere un equo indennizzo nella stessa misura del risarcimento dei danni che si potrebbe richiedere con il rimedio interno davanti al Tribunale ordinario di Roma.
  1. E’ evidente che l’azione alla Corte EDU può essere esperita soltanto entro sei mesi dal venir meno dei rimedi interni per avere il riconoscimento del diritto davanti al giudice nazionale, per cui potranno accedervi soltanto coloro che hanno ancora giudizi pendenti in appello o in cassazione o hanno possibilità ancora di proporre gravame avverso la sentenza sfavorevole in appello o in cassazione, oppure sono stati soccombenti con sentenza passata in cosa giudicata senza ancora il decorso dei sei mesi dal passaggio in giudicato.

[1] Pres. Rordorf, Est. Curzio.

[2] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza 22 ottobre 2005, causa C-144/04 Mangold contro Helm.

[3] Pres. Ianniruberto, Est. Vidiri.

[4] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza 4 luglio 2006, causa C-212/04 Adeneler ed altri.

[5] Queste le ineccepibili considerazioni sul punto della sentenza n.12985/2008: «Nello stesso senso depone anche l’esame dei lavori preparatori, atteso che il riferimento alla perdita del carattere di eccezionalità, contenuto nella relazione inviata alle Commissioni parlamentari (L. n. 422 del 2000, ex art. 1, comma 3) venne soppresso nella relazione definitiva, formulata dopo che entrambe le Commissioni avevano richiesto che venisse modificata pur avendo sollevato rilievi marginali sulle singole disposizioni, e considerato che nella relazione definitiva si legge invece che i contratti a tempo indeterminato continueranno ad essere la “forma comune” dei rapporti di lavoro. Alla stessa conclusione conduce, poi, la interpretazione cd. comunitaria (che nella specie ha anche valenza costituzionale ex art. 76 Cost., in quanto la delega al Governo è limitata, L. n. 422 del 2000, ex art. 1, alle norme occorrenti per dare attuazione alla direttiva), atteso che dai “considerando” della direttiva citata e dall’accordo quadro allegato (Preambolo, Considerazioni generali e Clausole) risulta che: “la realizzazione del mercato interno deve portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella Comunità europea mediante il ravvicinamento di tali condizioni, che costituisca un progresso, soprattutto per quanto riguarda le forme di lavoro diverse dal lavoro a tempo indeterminato, al fine di raggiungere un equilibrio migliore tra la flessibilità dell’orario di lavoro e la sicurezza dei lavoratori; … Le parti dell’accordo quadro riconoscono che, da un lato, i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro, poichè contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e al miglioramento delle loro prestazioni, ma che, dall’altro, i contratti di lavoro a tempo determinato rispondono, in alcune circostanze, alle necessità sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori; l’accordo quadro stabilisce i principi generali e i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato, stabilendo, in particolare, un regime di carattere generale volto a garantire la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato proteggendoli dalle discriminazioni, nonchè a prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato, rimettendo agli Stati membri e alle parti sociali la definizione delle modalità dettagliate di applicazione dei detti principi e disposizioni, al fine di tenere conto delle realtà di situazioni specifiche nazionali, settoriali e stagionali;” (in tali sensi v. sentenza CGCE 4-7-2006, “Adeneler” in causa C-212/04). Pertanto, pur essendo stabilito “in particolare” un regime con riferimento alla parità di trattamento e alla prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di successivi rapporti a tempo determinato, non può negarsi che, comunque, “in generale”, l’accordo quadro, nello stabilire “i principi generali e i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato”, si riferisce a (tutti) “i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato” (vedi “considerando” n. 14) e, nel fissare il principio della “forma comune” del contratto a tempo indeterminato, si riferisce a (tutti) i “rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori” (vedi Preambolo). In tal senso, quindi, non può condividersi la tesi, sostenuta da una parte della dottrina che, in base ad una lettura incompleta della direttiva e della sentenza da ultimo citata (nonchè della precedente sentenza “Mangold”, del 22-11-2005, in causa C-144/04), in sostanza, ritiene che il primo ed unico contratto a tempo determinato, di per sè, sia estraneo all’oggetto della direttiva.».

[6] Tutti con la seguente formula: «esigenze tecniche, organizzative e produttive anche a carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi, nonché all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001», cui sono stati aggiunti ratione temporis gli accordi collettivi «del 11 gennaio, 13 febbraio e 17 aprile 2002», nonostante la possibilità di deroga alla contrattazione collettiva concessa dall’art.23, comma 2, della legge n.56/1987 fosse limitata al 31 dicembre 2001.

[7] Estensore Maria Antonietta La Notte Chirone, che è stata straordinario Giudice del lavoro particolarmente attenta alla tutela dei diritti fondamentali nel rapporto con la normativa europea e con i principi costituzionali. Fu Lei a sollevare la doppia pregiudiziale costituzionale e comunitaria sul sostitutivo Poste, che portarono alla sentenza Sorge della Corte di giustizia e alla sentenza n.214/2009 della Corte costituzionale, e a sollevare anche la pregiudiziale comunitaria sull’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001 e la violazione del principio di uguaglianza e non discriminazione, risolta sciaguratamente dall’ordinanza Vino della Corte di giustizia con motivazione che ricalca le sciocchezze già scritte nella sentenza Mangold. E’ morta prematuramente a causa di una grave malattia, che non Le ha impedito di dedicare gli ultimi giorni della Sua vita al lavoro di magistrato in udienza. Era il Giudice imparziale, la vera giurisdizione e al Suo ricordo sono dedicate queste pagine.

[8] Pres. Ravagnati, Est. Lamorgese.

[9] Cass., S.L., Pres. De Luca, Est. Di Cerbo, sentenza 26 gennaio 2010, n.1576. La sentenza della Cassazione accoglie il ricorso n.22536/2008 R.G.L. di Poste italiane avverso la sentenza n. 8538/2007 della Corte di appello di Roma, cassando la sentenza favorevole al lavoratore, rimasto intimato. La velocità nella fissazione dell’udienza di discussione (a distanza di un anno dal deposito del ricorso) e la circostanza che il lavoratore sia rimasto intimato nel giudizio per cassazione lasciano pensare che vi sia stato un precedente verbale di conciliazione per la stabilizzazione del rapporto, di cui non è stata data notizia alla Cassazione.

[10] Cass., S.L., Pres. De Luca, Est. Mammone, sentenza 26 gennaio 2010, n.1577. La sentenza della Cassazione rigetta il ricorso n.21956/2008 R.G.L. del lavoratore avverso la sentenza n. 854/2007 della Corte di appello di Milano, che però aveva contestualmente accolto il ricorso di altro lavoratore assunto per ragioni sostitutive ai sensi dell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001. La Corte di appello di Milano, in buona sostanza, nell’ambito della stessa sentenza aveva fatto una valutazione di “merito” sulla sussistenza delle ragioni sostitutive delle due posizioni, accogliendo una domanda e rigettando l’altra. La velocità nella fissazione dell’udienza di discussione (a distanza di un anno dal deposito del ricorso) e la circostanza che il lavoratore che aveva vinto la causa in appello abbia transatto con Poste con verbale di conciliazione del 20 gennaio 2009 per la stabilizzazione del rapporto lasciano chiaramente intendere che le due cause decise con le sentenze nn.1576 e 1577 del 2010 siano state sapientemente selezionate per creare precedenti in contrasto con la sentenza n.12985/2008 della Cassazione e con la sentenza n.214/2009 della Corte costituzionale sul sostitutivo Poste.

[11] Il prof. Pessi si è lamentato della sentenza n.214/2009 della Corte costituzionale in sede di presentazione del Convegno Agi del 2-3/10/2009 dal titolo “Tutela del lavoro nella crisi: nuove regole tra diritto interno e comunitario”.

[12] Corte di giustizia, IV Sezione, sentenza 24 giugno 2010, causa C-98/09 Sorge contro Poste italiane. L’ordinanza di rinvio pregiudiziale è stata sollevata dal Tribunale di Trani dopo la sentenza n.12985/2008 della Cassazione e dopo l’ordinanza di legittimità costituzionale sull’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 dello stesso Tribunale, in conseguenza delle modifiche introdotte dall’art.21 d.l. n.112/2008 che andavano ad incidere sul rafforzamento della tutela dei lavoratori riconosciuta dalla Cassazione del 2008.

[13] Corte di giustizia, III Sezione, sentenza 23 aprile 2009, cause da C-378/07 a C-380/07 Angelidaki ed altri.

[14] Corte di giustizia, VI Sezione, ordinanza 11 novembre 2010, causa C-20/10 Vino contro Poste italiane. L’ordinanza di rinvio pregiudiziale è stata sollevata dal Tribunale di Trani dopo la sentenza n.214/2009 della Corte costituzionale, perché, all’interno dello stesso d.lgs. n.368/2001, si era creata una vistosa discriminazione tra lavoratori assunti dalla stessa azienda Poste italiane e per lo svolgimento delle stesse mansioni (generalmente, di portalettere), con contratti causali ai sensi dell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 o con contratti acausali ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001.

[15] Corte di giustizia, VI Sezione, ordinanza 7 giugno 2011, causa 161/11 Vino contro Poste italiane. L’ordinanza di rinvio pregiudiziale è stata sollevata sempre dal Tribunale di Trani per chiarire che non aveva invocato la violazione della clausola 4 dell’accordo quadro comunitario e la comparazione tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori a tempo determinato, ma la violazione del principio generale di non discriminazione tra lavoratori assunti a termine dalla stessa azienda Poste italiane e per lo svolgimento delle stesse mansioni (generalmente, di portalettere), con contratti causali ai sensi dell’art.1, comma 1, d.lgs. n.368/2001 o con contratti acausali ai sensi dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001. Come magra consolazione, a distanza di quattro anni, l’Avvocato generale italiano Mengozzi nelle conclusioni del 20 maggio 2015 nella causa Regojo Dans C-177/14 nella nota 73 affermerà che l’ordinanza Vino era sbagliata e la Corte di giustizia non aveva applicato il principio di non discriminazione, favorendo Poste italiane: «In ogni caso, la soluzione accolta dalla Corte nell’ordinanza Rivas Montes mi sembra criticabile. Infatti, nella misura in cui la ricorrente era stata assunta a tempo determinato, e taluni lavoratori a tempo indeterminato (i dipendenti di ruolo) beneficiavano del vantaggio ad essa negato, sarebbe stato preferibile, a mio avviso, ritenere che fosse integrata una disparità di trattamento vietata dalla clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. Negare alla sig.ra Rivas Montes, come fatto dalla Corte, il beneficio di tale clausola 4 si risolve nell’esigere che tutti i lavoratori a tempo indeterminato comparabili (dipendenti di ruolo e agenti assunti con contratto a tempo indeterminato), e non solo taluni lavoratori a tempo indeterminato comparabili (i dipendenti di ruolo), beneficino del vantaggio negato al lavoratore a tempo determinato che si reputa vittima di una discriminazione. Siamo in presenza in tal caso, mi sembra, di un’interpretazione restrittiva della citata clausola 4, mentre gli obiettivi di detto accordo quadro e il suo effetto utile richiedono un’interpretazione ampia della clausola in parola. Infine, rilevo che nell’ordinanza Vino, sulla quale si fonda la Corte nell’ordinanza Rivas Montes, nessun lavoratore a tempo indeterminato poteva beneficiare del vantaggio rivendicato dal ricorrente, in quanto un siffatto vantaggio consisteva nell’indicazione obbligatoria, nel contratto di lavoro a tempo determinato, della ragione per la quale esso era concluso a tempo determinato (posto che l’omissione di una siffatta indicazione comportava la riqualificazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato). Si era dunque effettivamente in presenza di una disparità di trattamento fra taluni lavoratori a tempo determinato (quelli al servizio, come il ricorrente, delle poste italiane, la cui normativa prevedeva che il contratto non doveva menzionare la ragione per la quale esso era concluso a tempo determinato) e altri lavoratori a tempo determinato (quelli che beneficiavano delle disposizioni di diritto comune, ossia il cui contratto doveva menzionare la ragione per la quale esso era a tempo determinato). V. ordinanza Vino (C‑20/10, EU:C:2010:677, punti 15, 16 e 57).».

[16] Corte di giustizia, III Sezione, sentenza 12 dicembre 2013, causa C-361/12 Carratù contro Poste italiane. L’ordinanza di rinvio pregiudiziale è stata sollevata dal Tribunale di Napoli in contrasto con la sentenza n.303/2011 della Corte costituzionale, che aveva dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dell’art.32, commi 5 e 7, della legge n.183/2010, sollevata dalla Cassazione con ordinanza n.2112/2011.

[17] Pres. Est. Vidiri.

[18] Corte di giustizia, VIII Sezione, ordinanza 1 ottobre 2010, causa C-3/10 Affatato contro ASL Cosenza. Al punto 48 dell’ordinanza la Corte europea prende atto delle osservazioni scritte dell’Avvocatura generale dello Stato italiano e riconosce che l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, ritenuto applicabile al pubblico impiego, è misura idonea a sanzionare con la costituzione a tempo indeterminato dei rapporti successivi che abbiano superato i 36 mesi l’abusivo ricorso ai contratti a termine.

[19] Estensore E. Lupo, 1° Presidente pro tempore della Corte di Cassazione.

[20] Queste le conclusioni dell’Avvocato generale Bot nella causa Ferreira da Silva e Brito ai punti 94-95: «94. Va sottolineato che i giudici nazionali avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno devono esercitare particolare prudenza prima di escludere l’esistenza di qualsiasi ragionevole dubbio. Essi devono esporre i motivi per cui hanno la certezza di applicare correttamente il diritto dell’Unione. 95 Tale prudenza deve condurli, in particolare, a verificare in modo preciso se l’applicazione del diritto dell’Unione che essi considerano tenga debitamente conto delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che presenta la sua interpretazione, nonché del rischio di divergenze di giurisprudenza all’interno dell’Unione.».

[21] Corte di giustizia, VIII Sezione, ordinanza 12 dicembre 2013, causa C-50/13 Papalia contro Comune di Aosta.

[22] Corte di giustizia, II Sezione, sentenza 9 settembre 2015, causa C-160/14 Ferreira da Silva e Brito ed altri contro Stato portoghese.

[23] Il dott. Marescotti, Presidente p.t. della VIII Sezione civile della Corte di appello di Milano.

[24] Il prof. Tizzano, già difensore di Poste italiane s.p.a. davanti alla Corte di Giustizia per le osservazioni scritte presentate dall’impresa pubblica nella causa Traco C-340/99, è stato l’Avvocato generale della Cguea nella causa C-144/04 Mangold, con conclusioni – sbagliate – presentate all’udienza del 30 giugno 2005. L’errore commesso dall’Avvocato generale italiano era abbastanza evidente, perché la normativa tedesca sul contratto a tempo determinato conteneva, oltre alla misura preventiva delle ragioni oggettive, anche le altre due misure previste dalla clausola 5, n.1, lettere b) e c), dell’accordo quadro comunitario della durata massima complessiva di due anni e del numero massimo di tre rinnovi all’interno della durata massima complessiva. Quindi, la questione di compatibilità comunitaria dell’unico contratto a tempo determinato acausale dell’ultracinquenne Mangold, inventato dall’avvocato Helm, con la clausola 5, n.1, lett.a), dell’accordo quadro era palesemente inammissibile e non andava dichiarata – come erroneamente proposto dall’Avvocato generale e poi dichiarato dalla Corte – l’incompetenza della CGUE perché esulante l’unico contratto a tempo determinato dal campo di applicazione della clausola. Questo inusuale e per noi pretestuoso errore è stato il fondamento giuridico che ha legittimato l’entrata in vigore con la legge finanziaria n.266/2005 dell’art.2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001.

[25] Nel Plenum del CSM che ha deciso la nomina del dott. Canzio vi sono stati due astenuti, i due astenuti Aschettino e Morosini, che hanno voluto ribadire che la scelta di Canzio risulta «non in sintonia con la ratio delle proroghe concesse ai magistrati settantenni e di non facile lettura sul piano della funzionalità del sistema». La vicenda del commissariamento della Corte di Milano – Sezione lavoro conferma la sensazione dei due componenti togati di Magistratura democratica.

[26] Presidente del Collegio che ha deciso la sentenza n.11374/2016 delle Sezioni unite.

[27] Pres. Vidiri.

[28] Corte di giustizia, II Sezione, sentenza 26 gennaio 2012, causa C-586/10 Kücük contro Land Nord-Westfalia. La mistificazione della sentenza comunitaria da parte della Cassazione è evidente, dal momento che la sentenza Kücük non fa altro che accogliere le conclusioni del 15 settembre 2011 l’avvocato generale Jääskinen nella causa “omologa” C-313/10 Jansen in Corte di Giustizia. L’Avvocato generale finlandese, peraltro, ha censurato come inidonea a soddisfare la nozione comunitaria di ragioni oggettive, già definita dalla sentenza Adeneler, la ragione “giustificatrice” dell’apposizione del termine contrattuale per esigenze finanziarie erariali di cui all’art. 14, par. 1, 2° periodo, n. 7, del TzBfG, sostanziamente coincidente con l’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n.368/2001. Per qualche mese le conclusioni dell’Avvocato generale Jääskinen non sono state tradotte in italiano, ovviamente.

[29] Corte di giustizia, III Sezione, sentenza 26 novembre 2014, cause riunite C-22/13, C-61/13, C-62/13, C-63/13 e C-418/13 Mascolo, Forni, Racca, Napolitano ed altri contro MIUR e Russo contro Comune di Napoli.

[30] Corte di giustizia, III Sezione, sentenza 3 luglio 2016, cause riunite C-362/13, C-363/13 e C-407/13 Fiamingo ed altri contro Rete Ferroviaria italiana.

[31] Corte di giustizia, III Sezione, sentenza 26 febbraio 2015, causa C-238/14 Commissione Ue contro Granducato di Lussemburgo. Si tratta della 1ª sentenza di condanna per inadempimento alla direttiva 1999/70/CE e riguarda la mancata predisposizione di tutele preventive in favore dei lavoratori saltuari dello spettacolo da parte del Granducato di Lussemburgo. Si tratta di una situazione molto simile a quella dei contratti acausali di Poste italiane e del Jobs act.

[32] Pres. Stile, Rel. Bandini. Alla stessa udienza di discussione del 4 giugno 2015 la Cassazione ha esaminato e parimenti rinviato alle Sezioni unite altre quattro situazioni di contratti successivi acausali di Poste stipulati ai sensi dell’art.2, c. 1-bis, d.lgs. n.368/2001 con intervalli non lavorati inferiori a 60 giorni: la prima con ordinanza interlocutoria n.18419 del 18 settembre 2015 relativa a 5 contratti acausali dal 19.06.06 al 15.09.06, dal 02.11.06 al 31.01.07, dal 02.04.07 al 31.05.07, dal 17.09.07 al 31.10.07 e dal 01.02.08 al 31.03.08; la seconda con ordinanza n.18420 del 18 settembre 2015 relativa a 3 rapporti a termine dal 24.04.07 al 30.06.07, dal 28.08.07 al 31.10.07 e dal 01.02.08 al 31.03.08; la terza ordinanza n. 18783 del 23 settembre 2015 con 3 contratti dal 01.04.07 al 31.07.07, dal 20.08.07 al 17.10.07 e dal 28.11.07 al 31.01.08; la quarta con ordinanza n. 19284 del 29 settembre 2015 relativa a due posizioni, di cui la prima con 2 contratti dal 07.12.06 al 17.01.07 e dal 01.02.07 al 31.03.07, e la seconda con 4 contratti dal 01.02.06 al 31.03.06, dal 20.06.06 al 15.09.06, dal 02.11.06 al 31.01.07 e dal 06.06.07 al 31.08.07.

[33] Assurde e ingenerose sono le critiche di A.M. Perrino, in nota alla sentenza n. 260/2015 della Corte costituzionale, su Foro it., 2016, 1, 6-7, secondo cui la sentenza si segnalerebbe per incongruenze in fatto (oltre che in diritto), in quanto “la narrativa dà conto della stipulazione di trentaquattro contratti temporanei reiterati negli anni a partire dal 3 giugno 1997, anche nel corso del giudizio, di guisa che pressoché a sorpresa compare il riferimento all’apposizione del termine al primo contratto, collocato nel 2001”. In realtà, esaminando l’ordinanza remittente della Corte d’Appello di Firenze si evince che la situazione di causa era esattamente quella descritta dalla Consulta, perché dei 34 contratti a tempo determinato stipulati a partire dal 1997, il Tribunale di Firenze aveva accolto la domanda di nullità del termine di un contratto del 2001 (avendo, evidentemente, valutato legittimi i precedenti). Francamente incredibile, poi, è la critica in diritto all’applicazione (errata secondo la Perrino) della sentenza Mascolo della Corte di giustizia e non all’ordinanza Vino (che invece sarebbe la pronunzia da applicare).

[34] Cfr. V. Speziale, Totale liberalizzazione del contratto a termine, in Lavoro & Welfare, n.4, 2014, ediz. on line, pag.30: «È del tutto evidente che, nei limiti di 36 mesi, si introduce una totale fungibilità tra contratto a tempo determinato e rapporto di lavoro stabile, venendo di fatto a contrastare alcuni principi nazionali ed europei, come quello del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro (previsto dal d.lgs. 368/2001 e dalla Direttiva 1999/70/CE). Tra l’altro, con un totale rovesciamento di prospettiva rispetto alla legge Fornero, che voleva fare del rapporto stabile il “contratto dominante”, la riforma del 2014 muta la relazione tra regola/eccezione. Infatti, nei limiti del tetto massimo di 36 mesi, dal punto di vista strettamente giuridico le due forme contrattuali (tempo determinato/lavoro stabile) sono assolutamente equivalenti, favorendo evidenti processi di precarizzazione.».

[35] A cura di G.Amoroso, Estensore della sentenza n.5072/2016 delle Sezioni unite sul precariato pubblico.

[36] Corte di giustizia UE, VIII Sezione, ordinanza 30 aprile 2014, Luigi D’Aniello e al. c. Poste Italiane S.p.A., causa C-89/13. Diversamente dall’ordinanza Vino, la Corte di giustizia non si dichiara incompetente sul principio di uguaglianza e non discriminazione e sulla clausola 4 dell’accordo quadro comunitario, ma nega la comparabilità delle due situazioni tra tutela dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili nel regime dell’art.18 della legge n.300/1970 e e tutela dei lavoratori a tempo determinato in caso di abuso per irregolarità formali o sostanziali.

[37] Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza 19 settembre 1991, cause riunite C-6/09 e C-9/90 Francovich ed altri contro Repubblica italiana.

[38] Tribunale della funzione pubblica Ue, sentenza 13 aprile 2011, causa F-105/09 Scheefer contro Parlamento.

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