Il giudice delle leggi nel dialogo con la Corte di giustizia e con la Cassazione: le sentenze nn.260 e 272 del 2015 della Corte costituzionale sulla riqualificazione del precariato pubblico nazionale e regionale

Le sentenze n.260/2015 sul personale saltuario degli organismi nazionali di diritto pubblico delle Fondazioni lirico-sinfoniche e n.272/2015 sulla stabilizzazione del precariato pubblico regionale rappresentano una inattesa svolta della giurisprudenza della Corte costituzionale in direzione della maggior tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori flessibili alle dipendenze di lavoratori pubblici. La decisione n.260/2015 del Giudice delle leggi – che per la 2ª volta dopo l’ordinanza di rinvio pregiudiziale Ue sul precariato scolastico difende la giurisdizione dall’ingerenza del legislatore e contro gli interessi “illeciti” dello Stato – valorizza le ragioni obiettive giustificative del termine al contratto di lavoro come punto di equilibrio tra i diritti dei lavoratori alla stabilità dell’impiego e le esigenze peculiari del settore pubblico in cui essi operano. La decisione n.272/2015 della Consulta modifica il precedente granitico orientamento sulla competenza legislativa in materia di assunzioni del personale dipendente degli Enti locali, riconoscendola in capo esclusivamente alle Regioni ai sensi dell’art.117, comma 4, della Costituzione e alla potestà in materia di organizzazione amministrativa. Le sentenze commentate potrebbero essere il punto di approdo finale del tortuoso e spesso contrastato dialogo tra la stessa Corte costituzionale, la Cassazione, la Corte di giustizia e la Corte europea dei diritti dell’uomo sulla pari dignità delle parti processuali, sull’imparzialità e terzietà del giudice e sull’applicazione in orizzontale del principio di uguaglianza tra lavoratori privati e lavoratori pubblici, tra datori di lavoro privati e organismi statali o parastatali. Nello sfondo di questo dibattito giurisprudenziale, rimane l’evidente tentativo dello Stato-apparato, in un momento di gravissima carenza della democrazia interna sotto il profilo della (de)legittimazione popolare ed elettiva degli attuali organi legislativi, di condizionare la giurisdizione – per negare effettività alla tutela dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione e dalla disciplina Ue – attraverso l’attuale disciplina della responsabilità civile dei magistrati.

 

SOMMARIO: 1. La Corte costituzionale difende temporaneamente la Cassazione per “ragioni obiettive”? – 2. La difesa ad oltranza del parametro interposto Cedu e della centralità del giudice delle leggi nel rapporto con le Corti sovranazionali – 3. Lo scontro tra la Corte costituzionale e la Cedu sulle pensioni svizzere – 4. Lo scontro tra Corte costituzionale e Cassazione “a causa” della giurisprudenza Cedu – 5. Le ragioni “obiettive” e i contratti a tempo determinato degli organismi di diritto pubblico, quali sono le Fondazioni lirico-sinfoniche. – 6. La Cassazione applica le ragioni oggettive come misura sanzionatoria degli abusi delle Fondazioni lirico-sinfoniche – 7. L’ordinanza di rinvio costituzionale della Corte di appello di Firenze – 8. Le Sezioni unite della Cassazione e le questioni pendenti sull’abuso contrattuale nel pubblico impiego – 9. Le sentenze Mascolo e Commissione c. Lussemburgo della Corte di giustizia anti-Jobs act. – 10. La Cassazione e il rafforzamento politico-giuridico del dialogo con la Corte di giustizia e con la Corte Edu. Lo scontro con la Corte costituzionale sull’interpretazione delle leggi. – 11. La sentenza “comunitaria” della Corte costituzionale n.260/2015: una scelta di civiltà giuridica – 12. Le ragioni oggettive del contratto a termine nella sentenza n.260/2015 della Consulta e l’incompatibilità Ue del d.lgs. n.81/2015. – 13. Il falso problema della natura pubblica del datore di lavoro abusante: la Corte costituzionale applica la sentenza Carratù della Corte di giustizia. – 14. La 2ª svolta comunitaria della Corte costituzionale sulla stabilizzazione del precariato regionale nella sentenza n.272/2015. – 15. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati come tentativo dello Stato-apparato del Porcellum di condizionare la giurisdizione per negare l’effettività della tutela dei diritti garantiti dalla Costituzione e dall’Ue. La possibile risposta delle Sezioni unite della Cassazione.

di

Vincenzo De Michele

 

  1. La Corte costituzionale difende temporaneamente la Cassazione per “ragioni obiettive”?

 

Con la recentissima sentenza dell’11 dicembre 2015 n.260[1] la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 40, co. 1-bis, del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, co.1, della l. 9 agosto 2013, n. 98, nella parte in cui prevede che l’art. 3, co. 6, 1° per., del d.l. 30 aprile 2010, n. 64, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, della l. 29 giugno 2010, n. 100, si interpreta nel senso che alle fondazioni lirico-sinfoniche, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, non si applicano le disposizioni di legge che prevedono la stabilizzazione del rapporto di lavoro come conseguenza della violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine.

La Corte costituzionale nella sentenza in commento, pur affermando formalmente che la sedicente norma interpretativa con efficacia retroattiva ha violato l’art.117, co. 1, della Costituzionale alla luce degli art.6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (unico parametro costituzionale evocato dal giudice del rinvio, oltre all’art.3 Cost. dichiarato assorbito), estende in realtà (e in via principale) la censura anche al profilo (non richiesto) di incompatibilità con il diritto dell’Unione europea, richiamando, in particolare, le sentenze Mascolo[2] e Commissione contro Granducato di Lussemburgo[3] della Corte di giustizia dell’Unione europea.

La Consulta nella sentenza n.260/2015 difende rigosamente l’interpretazione restrittiva della «Corte nomofilattica»[4] sulla norma interpretata, evidenziando l’esistenza di un vero e proprio diritto vivente in favore della stabilizzazione dei contratti a termine per mancanza della temporaneità.

Qualche giorno dopo, però, la stessa Corte costituzionale sembra rivedere questa posizione con l’ordinanza n.274/2015[5], dichiarando per la 4ª volta[6] la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art.1, co. 774-776, l. n.296/2006 in materia di riduzione del calcolo dell’indennità integrativa speciale ai fini del calcolo della pensione di reversibilità, sollevata dapprima e per tre volte dalla Corte dei Conti anche a Sezione giurisdizionale centrale d’appello (con l’ordinanza n.72/2010 Reg.ord., decisa con la sentenza n.1/2011), infine dalla Cassazione con l’ordinanza del 20 febbraio 2014 n.4048[7].

  1. La difesa ad oltranza del parametro interposto Cedu e della centralità del giudice delle leggi nel rapporto con le Corti sovranazionali

Nella fattispecie di contenzioso “seriale” decisa dall’ordinanza n.274/2015 il rilevante numero di questioni di legittimità costituzionale sullo stesso “complesso” di norme retroattive, di cui le ultime tre concernenti il c.d. parametro interposto del diritto convenzionale, trova giustificazione nella gravità dell’intervento legislativo retroattivo, che va ad intaccare l’essenza stessa della giurisdizione e della certezza del diritto, perché sulla questione erano già intervenute le sezioni riunite della Corte dei conti con la decisione di massima n. 8/QM del 17 aprile 2002, che avevano fornito l’interpretazione autentica dell’art.15, co.5, l. n.335/1994 favorevole ai pensionati e all’applicazione dell’indennità integrativa speciale in caso di reversibilità nella misura piena e non ridotta, come invece “reinterpretato” dal legislatore nel 2006.

Bene, dunque, aveva fatto la Cassazione a difendere la giurisdizione contabile nella sua massima espressione nomofilattica (in materia di pensioni pubbliche), sollevando per la quarta volta la questione di legittimità costituzionale in subiecta materia, ancora una volta richiamando con l’ordinanza n.4048/2014 la violazione dell’art.6 della Cedu, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in applicazione dell’art. 117, co.1, Cost.

In particolare, per giustificare la fondatezza della delicata questione di costituzionalità proposta per la quarta volta, la Suprema Corte aveva evidenziato che, in meno di un anno dal 30 maggio 2011 fino al 14 febbraio 2012, erano intervenute tre decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo che, apertamente o implicitamente, avevano censurato cinque sentenze della Corte costituzionale su norme interpretative retroattive in materia di lavoro o previdenza: la n. 172/2008[8] sulle pensioni svizzere con la sentenza “Maggio” del 31 maggio 2011[9]; la n. 234/2007[10] e la n. 311/2009[11]  sul personale ata trasferito dagli Enti locali allo Stato con la sentenza “Agrati” del 7 giugno 2011[12]; la n. 303/2011[13] sul Collegato lavoro e la n. 362/2008[14] sulle pensioni dei dipendenti del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia con la sentenza “Arras” del 14 febbraio 2012[15].

Un vero caos istituzionale e giudiziario, acuito dal fatto che la Corte costituzionale non si era adeguata alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla vicenda del personale ata[16], provocando così una dura contrapposizione tra Corte di giustizia con la sentenza Scattolon[17] e la Corte Edu con la sentenza Montalto[18] culminata nel parere negativo n.3/12 reso il 18 dicembre 2014 dall’adunanza plenaria della Corte di Lussemburgo[19] al progetto di adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La norma interpretativa dell’art.8, co. 1 e 2, l. n.124/1999, come nel caso dei lavoratori a termine delle Fondazioni lirico-sinfoniche, andava a cancellare la giurisprudenza consolidata della Cassazione nel 2005[20] (15 sentenze) totalmente favorevole al riconoscimento integrale dell’anzianità di servizio del personale ata nel trasferimento formale delle posizioni lavorative alle dipendenze dello Stato, sentenze che secondo la Corte costituzionale nella apodittica sentenza n.234/2007 non costituivano “diritto vivente” perché in contrasto con l’accordo Aran del 20 luglio 2000 ad efficacia normativa. Il presupposto giuridico e fattuale della delibazione di legittimità costituzionale non corrispondeva alla realtà fattuale e processuale: le stesse parti sociali che avevano sottoscritto l’accordo Aran avevano precisato, per ben due volte in giudizi di merito in cui era stata proposta la pregiudiziale interpretativa di cui all’art. 64 d.lgs. n.165/2001, che l’intesa non aveva alcun valore normativo e non andava a modificare la disciplina prevista dalla legge per il riconoscimento integrale dell’anzianità di servizio.

  1. Lo scontro tra la Corte costituzionale e la Cedu sulle pensioni svizzere

Sulla vicenda delle pensioni svizzere, poi, il comportamento della Corte costituzionale era stato addirittura di contrapposizione alla Corte Edu con un’originale versione della nota teoria dei controlimiti, esplicitata nella sentenza n.264/2012[21], in cui si utilizza come argomento per negare l’efficacia della sentenza Maggio dei giudici di Strasburgo la circostanza che la decisione convenzionale era intervenuta su una fattispecie concreta e aveva rilevato la violazione soltanto dell’art.6 della Cedu e non dell’art.1 del 1° Protocollo della Convenzione. La Corte costituzionale seccamente, nel dichiarare legittima la norma interpretativa, si riservava il ruolo di interprete “sistemico” dell’ordinamento interno che, a rigore, dovrebbe competere alla Corte di cassazione.

Durissima, peraltro, è stata la reazione della Corte europea dei diritti dell’uomo che, sempre in materia di pensioni svizzere, ha ampliato la censura già espressa con la sentenza Maggio e con sentenza del 15 aprile 2014 nella causa Stefanetti ed altri ha ribadito la condanna dell’Italia per violazione dell’art.6 Cedu aggiungendo anche la violazione dell’art.1 del Protocollo n. 1 della Convenzione, e, con esplicito riferimento alla sentenza n. 264/2012 del giudice delle leggi, ha osservato, in particolare: «Ne consegue che, dato anche il fatto che nei decenni in cui l’applicazione del calcolo in questione era stata contestata nei Tribunali nazionali vi era stata un’interpretazione maggioritaria a favore dei ricorrenti (con l’eccezione di alcune sentenze di primo grado), nel caso di specie, diversamente dalle cause summenzionate, l’ingerenza legislativa (che faceva pendere la bilancia a favore di una delle parti) non era prevedibile… 65. Malgrado la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, non esistevano impellenti motivi di interesse generale che giustificassero l’applicazione retroattiva della Legge n. 296 del 2006, che non era un’interpretazione autentica dell’originaria legge ed era pertanto imprevedibile.».

La 2ª censura della Corte Edu sulle pensioni svizzere in difesa della giurisprudenza della nomofilachia autentica delle leggi nazionali non ha lasciato indifferente la Corte di cassazione, che con ordinanza n.4881/2015[22] ha sollevato per la 3ª volta la questione di legittimità costituzionale (attualmente pendente) dell’art.1, co.777, l.n. 296/2006, richiamando espressamente i principi fissati dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Stefanetti.

Soltanto con la sentenza n.78/2012[23] sulle pensioni dei dipendenti del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia il giudice delle leggi si è adeguato alla sentenza Arras della Corte di Strasburgo, precisando: «La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte affermato che se, in linea di principio, nulla vieta al potere legislativo di regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 della Convenzione ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia (ex plurimis: Corte europea, sentenza sezione seconda, 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia; sezione seconda, 31 maggio 2011, Maggio contro Italia; sezione quinta, 11 febbraio 2010, Javaugue contro Francia; sezione seconda, 10 giugno 2008, Bortesi e altri contro Italia).».

Questa “massima” della giurisprudenza convenzionale verrà ripresa anche in altre decisioni della Consulta, a volte per dichiarare la legittimità costituzionale della norma retroattiva con chiaro intento demolitorio o di contrapposizione logico-giuridica (sentenza n.257/2011 sulle pensioni agricole[24]; sentenza n.303/2011[25] sull’art.32, co. 5-7, l. n.183/2010), altre volte per rilevare l’esistenza di ragioni imperiose di carattere generale in «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo» o per «ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore» (sentenza n.15/2012[26] sulla doppia contribuzione Inps degli amministratori di società di capitale, aderendo però alla sentenza n.17076/2011 della Cassazione a Sezioni unite; ordinanza n.92/2014[27] sui termini processuali in caso di opposizione a decreto ingiuntivo; sentenza n.127/2015[28], in materia di pensioni pubbliche e di calcolo dell’indennità integrativa speciale); soltanto in tre occasioni (peraltro marginali sotto il profilo della serialità delle questioni) rilevando l’illegittimità costituzionale della norma retroattiva (sentenza n.170/2013[29] sul privilegio generale mobiliare in materia fallimentare in favore di Equitalia; sentenza n.308/2013[30] su norma regionale in materia paesaggistica; sentenza n.191/2014[31] sulla nomina del Commissario di governo di Roma).

  1. Lo scontro tra Corte costituzionale e Cassazione “a causa” della giurisprudenza Cedu

Con queste premesse, era scontato che la Corte costituzionale rigettasse con l’ordinanza di manifesta infondatezza n.274/2015 l’ennesimo tentativo della Cassazione con l’ordinanza n.4048/2014 di far applicare al giudice delle leggi il diritto convenzionale, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Edu che aveva censurato gli errori “interpretativi” di favor erariale della Consulta, punendone la rinuncia alla scelta ermeneutica di applicazione diretta della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che la Suprema Corte aveva valutato come possibile: «La tesi, sostenuta da una parte della dottrina, della disapplicabilità, da parte del giudice comune, di norme contrastanti non solo con l’articolo 6 CEDU, ma anche con l’articolo 47, comma 2, e articolo 52, comma 3, della Carta dei diritti fondamentali UE, non é generalmente condivisa e contrasta con le citate sentt. nn. 348 e 349 del 2007 della Corte Cost.. Essa non ha dato luogo a “diritto vivente” onde a questo collegio sembra meglio procedere secondo le indicazioni di queste due pronunce (vedi anche Corte giust. UE, 24 aprile 2012 n. C 571/10 Kamberaj; 26 febbraio 2013 n. 617/10, Fransson).».

La Cassazione nell’ordinanza di rinvio richiama dunque la posizione “minoritaria” espressa anche da chi scrive[32], di potenziare e rendere più diretto l’effetto delle sentenze della Cedu nell’ordinamento interno, puntando[33] sul rafforzamento del dialogo tra Corte di Giustizia e giudici nazionali, non essendo (più) convincente la teoria della tutela contro gli abusi normativi dello Stato affidata al solo parametro intermedio della Cedu, costruito dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, ma sostanzialmente fallito nella sua pratica applicazione.

Peraltro, nell’ordinanza interlocutoria della Suprema Corte n.25688/2014[34] di rimessione alle Sezioni unite di questione della massima rilevanza in materia di norma interpretativa che interviene calcolo pro rata di pensioni erogate da Casse privatizzate di lavoratori autonomi, è rappresentato il disagio della Cassazione e la “svalutazione” del giudizio di costituzionalità delle leggi rispetto a interpretazioni della Corte costituzionale di eccessivo favore nei confronti dello Stato: «questa decisione della remissione che si é ritenuta da questa Corte da privilegiare su ogni altra, stante il principio del giusto processo e della sua “ragionevole durata” (articolo 111 Cost., comma 2) e stante ancora il rafforzamento della funzione nomofilattica delle Sezioni Unite della Cassazione anche a seguito delle novelle del 2006 e del 2009, e che è, pertanto, da preferire anche rispetto ad altra pur praticabile decisione alternativa, quella cioè del rinvio pregiudiziale al giudice delle leggi a seguito di opzioni ermeneutiche sul disposto della Legge n. 145 del 2013, articolo 1, comma 488, che fanno sorgere dubbi di incostituzionalità non manifestamente infondati».

La Cassazione nell’ordinanza interlocutoria n.25688/2014 individua le ragioni dell’opportunità di non rinviare al giudice delle leggi per l’incidente di costituzionalità richiamando le riflessioni dell’Ufficio del Massimario della Cassazione[35] sul corto circuito della tutela multilivello in merito alla questione del personale ata, «che non è giunta neppure dopo molti anni ad un approdo definitivo (ed infatti la CEDU recentemente ha continuato a pronunziarsi in materia in senso contrario anche ai più recenti arresti della Corte di cassazione; cfr. ex plurimis sentenze 25 marzo 2014, Biasucci c. Italia; 13 maggio 2014 Marino e Colacione c. Italia e Bordoni c. Italia, che hanno confermato la violazione dell’articolo 6, par. 1, della Convenzione EDU da parte dell’Italia)».

In effetti, ancora una volta la Corte costituzionale con l’ordinanza n.274/2015 ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sull’art.1, co.774-776, l. n.296/2006 sul computo integrale dell’indennità integrativa speciale sollevata dalla Cassazione, censurando il giudice di legittimità di non aver tenuto conto del precedente della Consulta n.1/2011 sulla stessa materia (sentenza che, per la verità, era intervenuta prima delle sentenze Maggio, Agrati e Arras della Cedu) e che comunque vi era una giurisprudenza minoritaria che giustificava l’interpretazione del legislatore contraria all’adunanza plenaria, favorevole ai pensionati in regime di reversibilità, al punto da essere confermata (la giurisprudenza contabile minoritaria) anche dalla Cassazione con la sentenza n.157/2015 (decisione che, naturalmente, è intervenuta dopo la sentenza n.227/2014 della Corte costituzionale, che la Suprema Corte nell’ordinanza di rinvio non poteva evidentemente conoscere).

Insomma, una difesa d’ufficio da parte della Corte costituzionale dei propri non autorevoli precedenti, che però pare smentire nell’immediatezza la sentenza sui precari delle Fondazioni lirico-sinfoniche.

In realtà non è così, se si tiene conto dei tempi di decisione delle due recentissime pronunzie. L’ordinanza n.274/2015 è stata decisa il 18 novembre 2015 e depositata dopo oltre un mese il 22 dicembre 2015, mentre la sentenza n.260/2015 è stata decisa il 1° dicembre e depositata dopo soli 10 giorni l’11 dicembre. Quindi, sotto il profilo cronologico dei processi decisionali, l’ordinanza n.274/2015 precede la sentenza n.260/2015, che appare la più recente e innovativa posizione interpretativa della Corte costituzionale sull’applicazione delle norme della Convenzione Edu (implicitamente) e dell’art.117, co.1, Cost. in applicazione del diritto Ue (esplicitamente), soprattutto perché prescinde da ogni valutazione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, di cui non vi è traccia nonostante essa sia stata più volte richiamata nell’ordinanza di rinvio della Corte di appello di Firenze.

E’ il caso allora di approfondire la vicenda processuale e legislativa esaminata dalla Corte costituzionale nella sentenza in commento, per riuscire a cogliere l’importanza e la novità della decisione del giudice delle leggi.

Si era ipotizzato, quasi tre mesi prima del deposito della sentenza n.260/2015 del giudice delle leggi, che questa decisione, seppure senza il vaglio di compatibilità con il diritto dell’Unione europea e con la direttiva 1999/70/CE (non richiesto dalla Corte di appello di Firenze nell’ordinanza di rinvio, forse in conseguenza della nota confusione sia nella giurisprudenza comunitaria che in quella costituzionale sul primo e unico contratto a tempo determinato se rientrante o meno nel campo di applicazione della clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato[36]), avrebbe rappresentato il primo preventivo crash test del nuovo decreto legislativo n.81/2015  (art.29, co.3) se la Corte costituzionale avesse optato per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma di interpretazione autentica, provocando inevitabilmente un effetto domino su tutte le altre norme che impediscono la tutela effettiva dei lavoratori pubblici precari, anche in applicazione del diritto eurounitario oltre che della Convenzione Edu[37].

Infatti, in previsione della decisione della Consulta, nel d.lgs. n. 81/2015 è stato inserito l’art. 29, co. 3[38], non presente nello schema di decreto legislativo presentato il 9 aprile 2015 alle Camere per il parere (ma nei due pareri delle assemblee legislative si sollecita il Governo a intervenire inserendo una norma di “tutela” delle Fondazioni lirico-sinfoniche), che ricalca l’impostazione dell’art. 11, co. 4, d.lgs. n. 368/2001, escludendo i precari delle fondazioni di produzione musicale anche dalla tutela antiabusiva della successione dei contratti di cui agli artt. 19, co. 1-3, e 21 del d.lgs. n. 81/2015.

In effetti, la Corte costituzionale questa volta ha dato risposte ampie e chiare alle istanze di giustizia e di tutela dei diritti fondamentali sottoposte alla sua competenza di giudice delle leggi nazionali, coordinandole (si spera, non) una tantum con gli obblighi di corretto adempimento della normativa Ue e con la difesa della giurisdizione.

  1. Le ragioni “obiettive” e i contratti a tempo determinato degli organismi nazionali di diritto pubblico, quali sono le Fondazioni lirico-sinfoniche

Non vi è vicenda di conflitto tra legislatore e giurisprudenza (interna e sovranazionale) più eclatante e paradossale di quella dei precari alle dipendenze delle Fondazioni lirico-sinfoniche.

Essa è anche la fattispecie-simbolo di tutto il travagliato percorso giurisprudenziale della fallimentare privatizzazione delle pubbliche amministrazioni e della discontinua applicazione ai rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici delle regole del codice civile e delle leggi sul lavoro subordinato nelle imprese (art. 2, co. 2, d.lgs. n. 165/2001).

In occasione della trasformazione degli Enti pubblici non economici che operavano nel settore musicale in Fondazioni di diritto privato, il d.lgs. n.367/1996 all’art. 22, co. 2 ha previsto che al personale artistico e tecnico delle suddette fondazioni non si applicava (la norma è ancora in vigore) la disposizione dell’art. 2 della l. n. 230/1962, che disciplinava la proroga e la successione dei contratti a termine, ma soltanto l’art. 1, co. 2 con le causali tipiche, di cui la lett. e) riscontrava la sussistenza di esigenze temporanee «nelle assunzioni di personale riferite a specifici spettacoli ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi», nel testo introdotto dall’art. unico, l. n. 266/1977, che ha sostituito la precedente più generale formulazione «nelle scritture del personale artistico e tecnico della produzione di spettacoli».

La trasformazione in fondazioni è avvenuta, tuttavia, in un momento successivo e per effetto del d.l. n.345/2000 (convertito, con modificazioni, dalla l. n.6/2001), che all’art.1 ha disposto che gli enti autonomi lirici e le istituzioni concertistiche assimilate sono trasformati in fondazioni ed acquisiscono la personalità giuridica di diritto privato a decorrere dal 23 maggio 1998. Lo stesso decreto rinviava, quanto alla disciplina delle fondazioni e per quanto in esso non espressamente previsto, al d.lgs. n.367/1996, al codice civile e richiamava anche la l. n.426/1977, che all’art.3, co.4 e 5[39], comportava il divieto assoluto di conversione in contratti a tempo indeterminato in caso di rinnovi di rapporti a termine privi del requisito della specificità  temporaneità.

Nonostante la normativa di favore, le Fondazioni (fintamente) “privatizzate” lirico-sinfoniche hanno evidentemente abusato nell’utilizzazione dei contratti a termine e la giurisprudenza di merito ha iniziato a convertire in contratti a tempo indeterminato, per nullità del termine in relazione alla violazione dell’art. 1, c. 2, lett. e), l. n. 230/1962 (non essendo applicabili le norme sanzionatorie sulla successione di contratti) e dell’art.1344 c.c..

Il legislatore del d.lgs. n. 368/2001 si è così preoccupato di sanare, in favore dei datori di lavoro pubblico-privati, il precedente contenzioso e di evitare quello futuro, inserendo nella disciplina attuativa della direttiva 1999/70/CE l’art. 11, co. 4, con la seguente previsione: «Al personale artistico e tecnico delle fondazioni di produzione musicale previste dal decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367, non si applicano le norme di cui agli articoli 4 e 5».

Chiara l’intenzione “liberalizzatrice”: nessuna sanzione in caso di nullità del termine, ma solo in caso di violazioni formali (mancanza di forma scritta e della specificazione di “generiche” ragioni oggettive) ai sensi dell’art. 1, co. 1 e 2, del d.lgs. n. 368/2001 (nell’originaria formulazione prima delle modifiche introdotte dal d.l. Poletti n.34/2014); nessuna sanzione in caso di violazione della (non applicabile) normativa sui contratti successivi.

Il legislatore della finanziaria n. 266/2005 tenterà con successo (temporaneo, come vedremo) la stessa operazione con la causale finanziaria Poste introdotta dall’art. 2, co. 1-bis, d.lgs. n. 368/2001 con decorrenza dal 1° gennaio 2006, considerata generalmente il modello del contratto a tempo determinato “acausale” al punto da essere esteso – per una sola volta e per una durata massima di un anno – a tutte le imprese private dall’art. 1, co. 1-bis, d.lgs. n. 368/2001, introdotto dalle legge Fornero ed abrogato dal d.l. n. 34/2014 con la (presunta) generalizzazione dei contratti acausali.

Viceversa, sul piano giurisprudenziale la precarizzazione dei rapporti di lavoro del personale artistico e tecnico delle fondazioni di produzione musicale sembrava essere cessata e risolta a favore dei lavoratori per l’orientamento costante della Cassazione che, dopo la sentenza n. 12985/2008[40] sulla causalità necessaria di ogni singolo contratto a tempo determinato anche nella disciplina introdotta dal d.lgs. n. 368/2001, aveva precisato che, successivamente alla trasformazione (a partire, dunque, dal 23 maggio 1998), ai contratti di lavoro a termine stipulati con le fondazioni lirico-sinfoniche continuava (e continua) ad applicarsi la disciplina sanzionatoria relativa alla mancanza di ragioni oggettive temporanee per ogni singolo contratto a termine sia nella vigenza dell’art. 1 della l. n. 230/1962 sia dopo l’entrata in vigore dell’art. 1, cc. 1 e 2, d.lgs. n. 368/2001[41].

Così operando, tuttavia, la Cassazione aveva già fornito una lettura della disciplina di settore costituzionalmente e comunitariamente orientata (rispetto al d.lgs. n. 368/2001), ma dichiaratamente contra legem.

Infatti, il Governo Berlusconi con d.l. n. 64/2010 (convertito con modificazioni dalla l. n. 100/2010), per chiarire l’assoluta mancanza di regole antiabusive nel settore musicale degli ex Enti pubblici non economici, all’art. 3, co. 6, primi tre periodi, ha precisato: «Alle fondazioni lirico-sinfoniche, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, continua ad applicarsi l’articolo 3, quarto e quinto comma, della legge 22 luglio 1977, n.426, e successive modificazioni, anche ai rapporti di lavoro instaurati dopo la loro trasformazione in soggetti di diritto privato e al periodo anteriore alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 368. Sono altresì inefficaci i contratti di scrittura privata non concretamente riferiti a specifiche attività artistiche espressamente programmate. Non si applicano, in ogni caso, alle fondazioni lirico-sinfoniche le disposizioni del Decreto Legislativo 6 settembre 2001, n. 368, articolo 1, commi 1 e 2».

Il d.l. n.64/2010 interviene anche a “riclassificare” in senso pubblicistico gli Enti lirici, qualificati già dalla Cassazione a Sezioni unite[42] come organismi di diritto pubblico, cui la Corte costituzionale con la sentenza n.153/2011[43] aggiunge anche il carattere nazionale, con la ulteriore precisazione che la riorganizzazione delle Fondazioni nel settore lirico-sinfonico afferisce alla materia dell’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, di cui all’art.117, co.2, lett.g), Cost.

 

  1. La Cassazione applica le ragioni oggettive come misura sanzionatoria degli abusi delle Fondazioni lirico-sinfoniche

La disciplina anti-tutela dei lavoratori saltuari dello spettacolo alle dipendenze di Fondazioni lirico-sinfoniche può essere così sintetizzata con l’entrata in vigore del d.l. n.64/2010:

  • per i rapporti di lavoro instaurati dalla trasformazione in soggetti privati e fino all’entrata in vigore del d.lgs. n.368/2001 non si applica la disciplina della proroga e dei rinnovi di cui all’art.2 della l. n.230/1962 (cfr. art.3, co. 6, 1° per., d.l. n. 64/2010) e i rinnovi che comporterebbero la trasformazione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro sono nulli di diritto e privi di conseguenze sanzionatorie (art.3, co. 4 e 5, l. n.426/1977);
  • per i rapporti di lavoro instaurati dalla trasformazione in soggetti privati e fino all’entrata in vigore del d.lgs. n.368/2001 si applica soltanto la disciplina della specifica causale di cui all’art.1, co.2, lett.e), della l. n.230/1962, ma i contratti privi delle ragioni oggettive dello svolgimento di specifiche attività artistiche programmate sono inefficaci, cioè non producono alcun effetto (cfr. art.3, co. 6, 2° per., d.l. n. 64/2010);
  • per i rapporti di lavoro instaurati dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n.368/2001 non si applica né la disciplina della proroga e dei rinnovi (art.11, co.4, d.lgs. n.368/2001) né l’obbligo della forma scritta e della specificazione delle ragioni oggettive del “causalone” (art.3, co. 6, 3° per., d.l. n. 64/2010).

Quindi, de iure condito non vi sarebbe nessuna tutela, neanche quella della causalità delle ragioni oggettive temporanee, vista la totale fungibilità di contratto a termine e di rapporto a tempo indeterminato, che non è più nel settore la forma comune dei rapporti di lavoro.

Invece, no. Sul punto la Cassazione è tranchant operando sul piano della “disapplicazione interpretativa” della norma del 2010, ignorando completamente la natura di organismo nazionale di diritto pubblico delle Fondazioni lirico-sinfoniche enunciata dalle Sezione unite della Cassazione e dalla Corte costituzionale e affermando la natura totalmente privatistica dei rapporti di lavoro alle dipendenze di questi Enti: «Non appare peraltro sostenibile che con il rinnovato vigore del Decreto Legge n. 64 del 2010, articolo 3 il legislatore abbia voluto riaffermare la impossibilità della conversione dei rapporti di lavoro a termine del personale delle fondazioni lirico-sinfoniche per tutte le ipotesi di nullità dei contratti, comprese quelle derivanti da vizi genetici di forma o riguardanti la mancanza delle ragioni giustificative del termine: tale tesi trascura di considerare che il divieto di conversione, nel vigore della Legge n. 426 del 1977, trovava il suo sostegno normativo non già (o, meglio, non solo) nell’articolo 3 Legge cit. – giacchè la norma si limitava a vietare i rinnovi dei contratti sancendo la nullità di diritto delle assunzioni, ma tacendo sulle conseguenze in punto di trasformazione – quanto piuttosto nella natura di ente pubblico non economico degli enti lirici e nella qualificazione lato sensu pubblicistica del rapporto di lavoro, oltre che in specifiche disposizioni di legge» (cfr. Cass. n. 5748/2014[44], cit., punto 8.4)[45].

La Suprema Corte nella sentenza n.5478/2014 al punto 8.9 afferma che l’art.3, co.6, 3° per., d.l. n.64/2010 non ha natura retroattiva, considerata la portata fortemente derogatoria e l’assenza di norme espresse che inducano una diversa interpretazione e, pertanto, non si applica ratione temporis alla fattispecie di causa.

In secondo luogo, la Cassazione fa leva su un ripensamento del legislatore d’urgenza (Governo Letta), che dapprima aveva inserito l’art. 11, co. 19[46], d.l. 8 agosto 2013, n. 91 una norma interpretativa con efficacia retroattiva dell’art. 3, co. 6, d.l. n. 64/2010, che negava ogni possibilità di stabilizzazione, disposizione d’urgenza che era stata convertita in legge, come presunta forma di rispetto per le cause pendenti sulla questione, secondo la Corte di legittimità.

Sostanzialmente, dunque, la Cassazione per i dipendenti delle Fondazioni lirico-sinfoniche ha affermato la diretta applicazione delle ragioni “obiettive” come causa giustificativa dell’apposizione del termine contrattuale (anche per quanto riguarda i contratti a termine nel vigore della l. n.230/1962), ripristinando il rapporto tra la regola del contratto a tempo indeterminato e l’eccezione del contratto a tempo determinato, superando (cioè disapplicando), alla luce della nozione di ragioni oggettive enunciata della sentenza Adeneler[47], il dato normativo interno totalmente ostativo all’applicazione di qualsiasi misura preventiva e sanzionatoria contro l’utilizzo abusivo del contratto a tempo determinato nel settore para-pubblico dello spettacolo lirico-sinfonico.

Purtroppo, la fiducia della Suprema Corte sulla moratoria governativa delle norme d’urgenza interpretative era molto mal riposta perché, se era vero che non vi era stata conversione in legge dell’art. 11, co. 19, d.l. n. 91/2013, era però un dato normativo incontrovertibile che, il giorno stesso dell’entrata in vigore della regola interpretativa (9 agosto 2013), l’identica norma che negava la stabilizzazione dei precari delle Fondazioni lirico-musicali (anche sotto il profilo della nullità del termine) era stata inserita in sede di conversione (l. 9 agosto 2013, n. 98) del d.l. n. 69/2013 e collocata all’art. 40, c. 1-bis.

Ovviamente, la Suprema Corte nel marzo 2014 non si era accorta di questo gioco di prestigio del nostro legislatore. da “avanspettacolo”.

In definitiva, la norma retroattiva (art.11, co. 19, d.l. n.91/2013, poi “convertito” in art.40­, co.1-bis, d.l. n.64/2013) interpretava correttamente l’art.3, co.6, 1° periodo, d.l. n.64/2010 in combinato disposto sia con il secondo e terzo periodo dello stesso comma sia con l’art.3, co.4 e 5, l.n.426/1997.

Era la Cassazione che sbagliava a non applicare la normativa del 2010 (punto di vista dell’interprete antieuropeo filo-erariale) o, meglio, era la Cassazione che giustamente disapplicava la disciplina antitutela (punto di vista del giurista europeo costituzionalmente orientato) sul piano dell’interpretazione adeguatrice già proposta da Cass. n.12985/2008.

La stessa situazione di contrasto tra giurisdizione e legislazione si era verificata sei anni prima con la sentenza n.12985/2008 della Cassazione, quando il Governo con decretazione d’urgenza, sollecitato da Confindustria, all’art.21 del d.l. n.112/2008 (convertito, con modificazioni dalla l. n.133/2008) aveva attaccato i principi fondamentali della prima sentenza “comunitaria” della Suprema Corte sulla nuova disciplina del contratto a tempo determinato introdotta dal d.lgs. n.368/2001, che stravolgeva con la causalità necessaria delle ragioni oggettive temporanee sin dal primo rapporto a termine l’intentio legis di liberalizzare i contratti temporanei.

La Cassazione, anche allora, sarebbe stata difesa dalla Corte costituzionale con la “stanca” sentenza n.214/2009[48], che però avrebbe legittimato i contratti acausali di Poste italiane stipulati ai sensi dell’art.2, co.1-bis, d.lgs. n.368/2001 in aperta contraddizione rispetto alla stessa sentenza n.12985/2008 della Suprema Corte, pure definita “diritto vivente”.

La vicenda normativa-processuale dei lavoratori saltuari dello spettacolo lirico-sinfonico era contigua a quella degli abusi nella successione dei contratti a tempo determinato nel pubblico impiego, dal momento che la stessa tecnica legislativa (cioè dell’assenza assoluta di tutele) era stata perfezionata con il Governo Letta e il d.l. n.101/2013 (convertito, con modificazioni, dalla l.n.125/2013), che ha modificato l’art.36 del d.lgs. n.165/2001 aggiungendo i commi 5-ter e 5-quater, che mutuano e sintetizzano le disposizioni del combinato disposto dell’art.3, co. 4 e 5, l. n.426/1997 e dell’art.3, co. 6, primi tre periodi, d.l. n.64/2010, operando sia sull’illimitata successione dei contratti a tempo determinato sia sulla indifferenza della causalità e temporaneità delle ragioni oggettive, pena la nullità contrattuale in caso di impugnativa giudiziale.

Sostanzialmente, dunque, la Suprema Corte per i dipendenti delle Fondazioni lirico-sinfoniche ha affermato la diretta applicazione delle ragioni “obiettive” come causa giustificativa dell’apposizione del termine contrattuale, ripristinando il rapporto tra la regola del contratto a tempo indeterminato e l’eccezione del contratto a tempo determinato, superando (cioè disapplicando), alla luce delle due nozioni di ragioni oggettive e di contratti successivi enunciate della sentenza Adeneler[49], il dato normativo interno totalmente ostativo all’applicazione di qualsiasi misura preventiva e sanzionatoria contro l’utilizzo abusivo del contratto a tempo determinato nel settore para-pubblico dello spettacolo lirico-sinfonico.

  1. L’ordinanza di rinvio costituzionale della Corte di appello di Firenze

 

A questo punto, in difesa della Cassazione (e della dignità dell’ordinamento interno), è intervenuta la Corte di appello di Firenze che, con l’ordinanza del 18 settembre 2014[50] n. 234/2014 Reg. ord., ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 40, c. 1-bis, d.l. n. 69/2013, per violazione degli artt. 3 e 117, c. 1, Cost. in relazione agli artt. 6 e 13 della Cedu, sottolineando che il legislatore senza ragioni imperiose di carattere generale interveniva ancor una volta con norma retroattiva autoqualificata di interpretazione autentica per modificare l’orientamento consolidato della Suprema Corte di cassazione favorevole ai lavoratori, come già era accaduto nelle cause sul personale ata transitato dagli Enti locali allo Stato.

In questo caso, peraltro, sottolineava la Corte di appello, la questione “giuridica” riguardava poche centinaia di lavoratori sul territorio nazionale (non gli 80.000 del personale Ata) e i datori di lavoro beneficiari della norma di favore non appartenevano (più) al novero delle pubbliche amministrazioni, ma erano enti privati.

La Corte di appello di Firenze richiama le sentenze Agrati e Maggio della Corte Edu ed evidenzia che in primo grado già il Tribunale di Firenze aveva accolto la domanda di riqualificazione contrattuale a tempo indeterminato proposta dalla lavoratrice «tersicorea di fila con obbligo di solista», occupata alle dipendenze della Fondazione Teatro Maggio Musicale Fiorentino, in base ad una serie di n.34 contratti temporanei a partire dal 3 giugno 1997 e poi reiterati negli anni fino al deposito del ricorso introduttivo, cui andavano aggiunti altri 7 rapporti a termine nel corso del giudizio stesso.

Afferma il giudice del rinvio che la sentenza di primo grado, senza la norma interpretativa retroattiva del 2013, sarebbe stata confermata in applicazione dei principi di diritto enunciati[51], in particolare, dalla (più volte citata) sentenza n.5748/2014 della Cassazione, in quanto i reiterati rapporti a termine si sono stabilmente inseriti nell’ordinaria necessità produttiva del Teatro.

Stranamente, l’ordinanza di rinvio evita qualsiasi confronto con la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e con la pertinente e copiosa giurisprudenza della Corte di giustizia (pur affermando che i lavoratori privati a tempo determinato godevano delle forti tutele garantite dal d.lgs. n.368/2001, normativa di recepimento della direttiva 1999/70/CE) preferendo denunciare la sola violazione della normativa convenzionale Edu, oltre al solito principio di uguaglianza dell’art.3 Cost., ed esponendosi così al serio rischio di una declaratoria di inammissibilità della questione di legittimità, in ogni caso ultronea dal momento che la norma retroattiva del 2013 non faceva altro, come innanzi precisato, che interpretare correttamente la volontà del legislatore d’urgenza dell’art.3, co.6, d.l. n.64/2010, normativa che era stata già disapplicata dalla Cassazione nella sentenza n.5748/2014.

La stessa Corte costituzionale[52] ha chiarito, infatti, che «il rimettente deve espressamente indicare i motivi che osterebbero alla non applicazione del diritto interno in contrasto con il diritto dell’Unione europea, venendo altrimenti meno la sufficienza della motivazione in ordine alla rilevanza della questione (ex plurimis sentenze n. 288 e n. 227 del 2010, n. 125 del 2009 e n. 284 del 2007);  che, d’altronde, va ribadito che, nei casi in cui i giudici nazionali, chiamati ad interpretare il diritto comunitario, al fine di verificare la compatibilità delle norme interne, conservino dei dubbi rilevanti, va utilizzato il rinvio pregiudiziale prefigurato dall’art. 234 del Trattato CE quale fondamentale garanzia di uniformità di applicazione del diritto comunitario nell’insieme degli Stati membri (sentenza n. 284 del 2007); e che la questione di compatibilità comunitaria costituisce un prius logico e giuridico rispetto alla questione di costituzionalità, poiché investe la stessa applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo e pertanto la rilevanza della questione (ordinanze n. 241 del 2010 e n. 100 del 2009)».

In ogni caso, il presupposto da cui si muove la Corte di appello di Firenze nell’ordinanza di rinvio è lo stesso della Cassazione nella sentenza n.5748/2014, cioè che le Fondazioni lirico-sinfoniche sono enti pubblici economici e i rapporti di lavoro del personale dipendente non sono assoggettati alla disciplina del d.lgs. n.165/2001, ma (totalmente) alle regole del diritto civile e della normativa speciale dei datori di lavoro privati. Una prospettiva, dunque, opposta a quella affermata, seppure in materia di appalti di servizi e di inquadramento sistematico della natura giuridica degli Enti lirici ai fini del riparto di competenza legislativa, dalla Cassazione a Sezioni unite con l’ordinanza n.2637/2006 e dalla Corte costituzionale con la sentenza n.153/2011.

  1. Le Sezioni unite della Cassazione e le questioni pendenti sull’abuso contrattuale nel pubblico impiego.

Peraltro, per il risarcimento del danno nel caso di abusivo ricorso a contratti a tempo determinato successivi nel pubblico impiego non scolastico, nelle more della decisione della causa incidentale sulle Fondazioni lirico-sinfoniche, era stata fissata l’udienza pubblica del 1 dicembre 2015[53] davanti alle Sezioni unite della Cassazione, dopo l’ordinanza interlocutoria del giudice di legittimità[54], nella forbice tra il «danno comunitario» di cui all’art. 8, l. n. 604/1966 (inventato da Cass. n. 27481/2014) e l’applicazione analogica dell’art. 18, co. 4 e 5, l. n. 300/1970 (nella formulazione antecedente la riforma Fornero).

Come è noto quest’ultima soluzione, un vero e proprio astreinte predeterminato nell’importo di venti mensilità dell’ultima retribuzione, è stato individuato dal Tribunale di Genova[55] e confermato dalla Corte di appello di Genova, in sede di riassunzione della causa C-53/04 Marrosu-Sardino, definita dalla Corte di giustizia con sentenza del 7 settembre 2006 con la nota indicazione – non seguita fino ad ora dalla giurisprudenza di legittimità e scarsamente seguita da quella di merito – che la sanzione da applicare nel pubblico impiego deve essere dissuasiva, effettiva, proporzionata e, principaliter, equivalente a quella applicata nel settore privato.

Nella relazione tematica del Massimario[56], richiesta dalle Sezioni unite per l’udienza di discussione sull’abuso nella successione dei contratti a termine nel pubblico impiego, era stata prospettata l’eventualità, in via subordinata, di sollevare «questione di costituzionalità, per violazione degli artt. 11 e 117 Cost., profilandosi un contrasto fra la disciplina interna sul contratto a termine nel settore pubblico e la direttiva europea in materia, per l’assenza di misure idonee a reprimere e sanzionare gli abusi da successione».

La relazione tematica richiama la sentenza Mascolo della Corte di giustizia e la declaratoria di incompatibilità con la direttiva 1999/70/CE dell’attuale sistema di reclutamento scolastico delle supplenze del personale docente ed ata nella scuola pubblica, che, sulla base della concorde valutazione della Corte costituzionale nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale n.207/2013[57] e della Cassazione nella sentenza n.10127/2012[58], esclude sulla base della normativa interna vigente sia la riqualificazione a tempo indeterminato delle supplenze in caso di abusivo utilizzo (art.4, co.14-bis, l.n.124/1999; art.10, co.4-bis, d.lgs. n.368/2001) sia il risarcimento dei danni (art.36, co.5, d.lgs. n.165/2001), trattandosi di contratti a tempo determinato stipulati secundum legem e non in violazione di norme imperative (sentenza Mascolo, punto 113).

Tuttavia, esattamente come era accaduto per i dipendenti a tempo determinato delle Fondazioni lirico-sinfoniche, il quadro normativo sul pubblico impiego non è stato rappresentato nella sua integralità di assoluta mancanza di tutele antiabusive, perché effettivamente mancano nella ricognizione della pur eccellente relazione tematica proprio i commi 5-ter e 5-quater dell’art.36 del d.lgs. n.165/2001, che impediscono ogni adeguata ed equivalente sanzione se non attraverso la disapplicazione delle norme in contrasto con il diritto Ue.

Scartata, dunque, l’ipotesi dell’interpretazione conforme del risarcimento del danno previsto dall’art. 36, co.5, d.lgs. n. 165 del 2001, in ipotesi di responsabilità per abusivo utilizzo di contratti a termine nel pubblico impiego la sanzione in linea con i requisiti indicati dalla Corte di giustizia in termini di effettività ed equivalenza «tale da sollevare l’onere probatorio a carico del lavoratore senza ricorrere a forme estranee al nostro ordinamento (almeno in difetto di specifica previsione normativa)»[59], a parte il superamento del divieto di conversione l’altra soluzione “omologa” rispetto alla riqualificazione a tempo indeterminato dei contratti di lavoro rimane la risarcibilità in forma specifica del danno nei confronti dello Stato (e della stessa pubblica amministrazione datore di lavoro[60]) per mancato adeguamento alla direttiva 1999/70/CE[61].

  1. Le sentenze Mascolo e Commissione c. Lussemburgo della Corte di giustizia anti-Jobs act

Per la verità, non è esatto che la Corte di giustizia nella sentenza Mascolo (ma anche nell’ordinanza Affatato[62], al punto 48) non abbia indicato la sanzione adeguata ed equivalente in caso di abusivo utilizzo dei contratti a tempo determinato nel pubblico impiego.

Lo ha fatto ai punti 59-61, dichiarando irrilevanti i tre quesiti posti dal Tribunale di Napoli nella causa Russo C-63/13 sul precariato pubblico non scolastico, perché il giudice del rinvio ha gli strumenti per accogliere la domanda di stabilità lavorativa della ricorrente (punto 55) con l’adozione della misura energica ed efficace dell’art. 5, co. 4-bis, d.lgs. n. 368/2001, e la Corte di Lussemburgo è entrata così nel merito del quesito sull’obbligo di leale cooperazione dello Stato italiano nei confronti della Corte di giustizia nella causa Affatato.

Non è sembrato casuale, quindi, che, a quattro giorni dall’udienza di discussione delle questioni di legittimità sul reclutamento scolastico fissata il 23 giugno 2015 in riassunzione dopo la sentenza Mascolo, la Corte costituzionale abbia disposto il rinvio delle cause a nuovo ruolo, rimandando al 17 maggio 2016 la soluzione della definizione sistematica, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, delle regole che disciplinano i rapporti di lavoro a tempo determinato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni scolastiche.

Segno evidente della difficoltà di intervento “rescissorio” (per difetto di competenza, avendo la “giurisdizione” gli strumenti per risolvere direttamente il già acclarato contrasto della norma interna con l’ordinamento Ue) della Corte costituzionale, rispetto ad una situazione processuale in cui tutte e sette le ordinanze di rinvio dei Tribunali di Roma (2), Lamezia Terme (2) e Trento (3) chiedevano la declaratoria di illegittimità dell’art.4, c.1, della l. n.124/1999, la cui rimozione (scontata, dopo la sentenza Mascolo) lascerebbe però il vuoto della sanzione adeguata da applicare.

Sotto questo profilo, la decisione Mascolo è una vera e propria sentenza di inadempimento nei confronti dello Stato italiano rispetto agli obblighi incombenti in virtù dei trattati e della clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato formalmente nei confronti di tutti i supplenti della scuola pubblica, ai sensi dell’art.260 del Trattato per il funzionamento dell’Unione europea (TFUE).

Sostanzialmente è una sentenza di inadempimento anche rispetto alla tutela antiabusiva nei confronti di tutti i lavoratori pubblici precari, perché il Collegio lussemburghese della sentenza del 26 novembre 2014 non ignorava la vigenza dell’art.36, co.5-ter e 5-quater, d.lgs. n.368/2001, norme che impedivano l’applicazione dell’art.5, co.4-bis, d.lgs. n.368/2001 come sanzione adeguata ed effettiva, di cui la stessa Corte europea ha invitato il Tribunale di Napoli a dare esecuzione.

A conferma di ciò, nel dichiarare con la prima formale sentenza di inadempimento alla direttiva 1999/70/CE del “malcapitato” Granducato di Lussemburgo la mancata predisposizione di misure preventive contro gli abusi nella successione dei contratti a tempo determinato per i lavoratori saltuari dello spettacolo, la Corte di giustizia con la sentenza Commissione contro Lussemburgo a distanza di tre mesi richiama ben nove volte la sentenza Mascolo, che appunto considera effettivamente la 1ª vera e gravissima sentenza di inadempimento sull’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato sul pubblico impiego italiano.

Anche la sentenza Commissione c. Granducato di Lussemburgo nasce dalla situazione legislativa italiana sui contratti a tempo determinato, in conseguenza della conversione in legge del d.l. n.34/2014. Infatti, contemporaneamente, il 7 maggio 2014 i difensori italiani dei lavoratori[63] in sede di trattazione orale delle pregiudiziali sollevate dalla Cassazione[64] sul lavoro marittimo nelle cause riunite Fiamingo ed altri  hanno contestato l’idoneità delle modifiche al d.lgs. n. 368/2001 introdotte dal d.l. n. 34/2014, anche (e soprattutto) nel testo definitivo che si stava contestualmente approvando in sede di conversione, ad assicurare gli obiettivi e le garanzie della direttiva 1999/70/CE contro gli abusi nella successione dei contratti a tempo determinato.

Secondo gli avvocati italiani il legislatore d’urgenza aveva agito contra legem e contro la giurisprudenza della Cassazione e della Corte di giustizia, di cui aveva voluto svuotare la capacità protettiva dei diritti.

La Corte di giustizia (Giudice Toader) ha preteso nel corso dell’udienza la ripetizione dei punti critici della nuova disciplina del decreto Poletti n. 34/2014, invitando la Commissione a prenderne atto e ad agire di conseguenza.

A tempo di record, meno di una settimana dopo, la Commissione ha depositato il 13 maggio 2014 il ricorso per inadempimento che sarebbe stato poi deciso, sempre a tempo di record – senza trattazione orale e senza conclusioni scritte dell’avvocato generale italiano Mengozzi – in poco più di nove mesi dalla III Sezione della Corte di giustizia (stesso Collegio delle sentenze Carratù, Fiamingo e Mascolo) con la sentenza del 26 febbraio 2015 ha concluso affermando che «il Granducato di Lussemburgo, mantenendo talune deroghe alle misure volte a prevenire un utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato conclusi con i lavoratori saltuari dello spettacolo, è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti in virtù della clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato.».

La decisione della Corte di giustizia nella causa per inadempimento nei confronti dell’incolpevole e ricco Granducato di Lussemburgo per una situazione del tutto marginale di (presunta) carenza di tutele antiabusive solo nei confronti dei (pochissimi) lavoratori saltuari dello spettacolo (che godono peraltro di un regime privilegiato di disoccupazione) si fonda tutta sulla nozione di ragione oggettiva temporanea elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, laddove al punto 46 della sentenza la Corte europea precisa che «per quanto concerne l’argomento del Granducato di Lussemburgo secondo cui i lavoratori saltuari dello spettacolo, ai sensi del diritto lussemburghese, partecipano in realtà a progetti individuali e circoscritti nel tempo, occorre rilevare che, pur supponendo che siffatti progetti comportino, per il datore di lavoro, esigenze provvisorie di assunzione e che siffatte esigenze possano costituire «ragioni obiettive» che giustifichino il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato, ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro, tale Stato membro non chiarisce in che modo la normativa nazionale esiga che i lavoratori saltuari dello spettacolo, ai sensi del diritto lussemburghese, esercitino la loro attività nell’ambito di siffatti progetti. Per contro, come sottolinea la Commissione, emerge dallo stesso tenore letterale della definizione della nozione di «lavoratore saltuario dello spettacolo», che figura all’articolo 4 della legge modificata del 30 luglio 1999, che tale definizione non verte sulla natura temporanea o meno dell’attività di tali lavoratori.».

In buona sostanza, sebbene uno Stato membro sia legittimato, nel recepire la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, a tenere in considerazione esigenze particolari di un settore specifico, tale diritto non può, però, essere inteso nel senso che consente ad esso di dispensarsi dal rispettare, nei confronti di tale settore, l’obbligo di prevedere una misura adeguata volta a prevenire e, eventualmente, a sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Infatti, la circostanza di consentire a uno Stato membro di invocare un obiettivo come la flessibilità che deriva dall’utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato, al fine di dispensarsi da tale obbligo, contrasterebbe con uno degli obiettivi perseguiti dall’accordo quadro, vale a dire la stabilità dell’impiego, concepita come un elemento portante della tutela dei lavoratori, e potrebbe anche ridurre in maniera significativa le categorie di persone che possono beneficiare delle misure di tutela previste alla clausola 5 dell’accordo quadro (sentenza Commissione c. Lussemburgo, punto 51).

Pare a chi scrive che la Corte di giustizia fosse perfettamente a conoscenza, al momento della decisione di inadempimento nei confronti del Granducato di Lussemburgo, della pendenza della “identica” questione di legittimità costituzionale sui contratti a tempo determinato dei dipendenti delle Fondazioni Enti lirici.

E forse la Corte europea era a conoscenza anche del fatto che, seppure per un solo giorno (il 14 maggio 2011), un centrale e imprescindibile personaggio della politica italiana è stato alle dipendenze della Fondazione Teatro del Maggio musicale fiorentino con la qualifica di attore di prosa e allievo attore (mimo) e regolarmente assoggettato alla gestione obbligatoria previdenziale dei lavoratori dello spettacolo: evidentemente, anche un solo giorno di lavoro per un rapporto a termine privo di ragioni oggettive potrebbe portare alla stabilità lavorativa e a riaffermare la regola del contratto a tempo indeterminato, garantendo così un sicuro futuro artistico dopo l’incerto e precario agone politico.

  1. La Cassazione e il rafforzamento politico-giuridico del dialogo con la Corte di giustizia e con la Corte EDU. Lo scontro con la Corte costituzionale sull’interpretazione delle leggi

La situazione dei rapporti “istituzionali” tra la Cassazione e le Corti sovranazionali, peraltro, appariva in positiva evoluzione verso un rafforzamento del dialogo e della centralità della giurisdizione interna nella tutela dei diritti fondamentali, garantiti dall’ordinamento costituzionale e rafforzati dalle normative Ue e dagli obblighi Cedu.

Il giudice italiano in Corte di giustizia, prof. Antonio Tizzano, è diventato Vice Presidente del Collegio Ue dall’8 ottobre 2015 e il belga prof. Koen Lenaerts Presidente della Corte di Lussemburgo in pari data.

Il vertice del Collegio sovranazionale di Lussemburgo ha partecipato ad un importante Convegno[65] il 13 novembre 2015 nell’Aula magna della nostra Corte di cassazione, dove il prof. Lenaerts – nel 1° incontro ufficiale con giuristi nazionali fuori dalla sede della ECJ  (la Corte di giustizia in inglese) – ha offerto la sua appassionata lectio magistralis con una relazione su “L’eredità del procedimento Costa c. Enel”, ribadendo la centralità del giudice nazionale nella tutela dei diritti fondamentali e precisando che, alla luce del pluralismo costituzionale, il primato dell’Unione europea è «aperto ad un sistema di tutela dei diritti fondamentali che crea un flusso continuo di idee e di scambi di opinioni tra la ECJ e le sue controparti nazionali. Ne consegue che, nel tutelare l’indipendenza dell’ordinamento giuridico dell’Unione stessa, la supremazia del diritto dell’Unione europea consente anche uno ‘spazio costituzionale comune’ caratterizzato da un dialogo dinamico.».

Inoltre, sul versante della Corte europea dei diritti dell’uomo e del rapporto con la Cassazione, va segnalato che il giudice italiano Guido Raimondi è stato eletto Presidente della Corte Edu con decorrenza dal 1° novembre 2015 e i primi effetti della prestigiosa nomina al vertice della giurisprudenza convenzionale si sono potuti apprezzare molto rapidamente con la sottoscrizione, in data 11 dicembre 2015, dell’importante Protocollo d’intesa tra la Corte Suprema di Cassazione e la Corte di Strasburgo. Il Protocollo d’intesa prevede scambi di informazioni sulle sentenze della Corte internazionale e momenti di confronto stabili tra le due Corti, in prospettiva dell’attuazione del meccanismo formale di richiesta del parere preventivo che le Alte Corti nazionali saranno abilitate a formulare alla Grande camera della Corte Edu quando entrerà in vigore il Protocollo n.16, annesso alla Cedu per effetto della ratifica di almeno dieci dei Paesi del Consiglio d’Europa.

Per quanto riguarda il contrasto tra Corte costituzionale e Cassazione sul primato tra le Corti nazionali in materia di nomofilachia autentica delle norme interne, andava segnalata la sentenza n.2494/2015 della Corte di legittimità[66], che ha sconfessato la sentenza n.155/2014[67] della Corte costituzionale.

Il giudice delle leggi aveva dichiarato, con improprio approccio nomofilattico, costituzionalmente legittima l’interpretazione del Tribunale di Roma (giudice del rinvio) sulla non retroattività della norma del milleproroghe – art.2, co.54, d.l. n.225/2010 (convertito con modificazioni dalla l. n.10/2011) che ha introdotto l’art.32, co.1-bis[68], l. n.183/2010, che spostava al 31 dicembre 2011 l’entrata in vigore dei nuovi termini decadenziali introdotti dall’art.32, co.4, lett.a), l. n.183/2010 anche per i contratti a tempo determinato.

La Corte costituzionale nella sentenza n.155/2014 – citando la sentenza Carratù della Corte di giustizia per evidenziarne l’irrilevanza ai fini della decisione (tacendone invece ogni richiamo in sedes materiae nella successiva decisione n.226/2015[69] sulla questione di legittimità costituzionale dell’art.32, co.5-7, l.n.183/2010, sollevata dal Tribunale di Velletri per violazione della clausola di non regresso di cui alla direttiva 1999/70/CE) -, invece di dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale in presenza di due contrastanti posizioni interpretative nella giurisprudenza di merito, fa prevalere la soluzione meno favorevole ai lavoratori asserendo la non retroattività per l’impugnativa dei contratti a tempo determinato della norma che aveva fatto slittare i termini di operatività del sistema di decadenze al 31 dicembre 2011.

Peraltro, la Consulta si era rifiutata di far discutere unitariamente le due questioni di costituzionalità pendenti sull’art.32, co.1-bis (Trib. Roma), 5-7 (Trib. Velletri), l. n.183/2010, per giungere nella sentenza n.226/2014 in subiecta materia di applicazione dell’indennità onnicomprensiva sui processi in corso a conclusioni diametralmente opposte sul piano della compatibilità Ue rispetto a quelle dell’“omessa” sentenza Carratù della Corte di giustizia.

L’orientamento del giudice delle leggi rispetto alla nomofilachia autentica della Cassazione[70] è stato prontamente e duramente stigmatizzato dalla Suprema Corte con la sentenza n.2494/2015, in cui con pregevole e autorevole argomentazione si sottolinea che l’unica interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.32, c.1-bis, d.lgs. n.183/2010 è quella della sua retroattività anche (e soprattutto) al regime delle decadenze introdotte per i contratti a tempo determinato.

Giustamente, la Cassazione[71] si riappropria del ruolo nomofilattico e liquida come sbagliata e discriminatoria la posizione della Corte costituzionale, «argomentando proprio da tale decisione….che ove, nella prima applicazione del nuovo testo della Legge n. 183 del 2010, articolo 32, comma 1, non si ritenesse applicabile la proroga della decadenza a tutti i contratti a termine, e dunque anche a quelli che si siano conclusi prima dell’entrata in vigore del decreto “Mille proroghe” e per i quali, in ipotesi, sia già decorso il termine di decadenza, si determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni tra loro identiche.».

La giurisprudenza di merito[72] si è prontamente adeguata all’orientamento nomofilattico della Cassazione, censurando l’incoerenza ermeneutica e l’apoditticità argomentativa della pronunzia n.155/2014 della Corte costituzionale sull’applicazione non retroattiva della norma introdotta dal milleproroghe.

  1. La sentenza “comunitaria” della Corte costituzionale n.260/2015: una scelta di civiltà giuridica

Appariva l’attuale, dunque, il momento storico ideale perché la Corte costituzionale italiana rompesse la manovra di “accerchiamento” costruita dalla Cassazione nel dialogo intensificato con la Corte di giustizia e con la Corte Edu, per ritornare a partecipare alla fase di costruzione di un sistema giurisdizionale euro-unitario dei diritti fondamentali, dopo la felice esperienza dell’ordinanza “Gallo-Mattarella” di rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo sul precariato scolastico, in cui la Consulta si era trasformata in giudice del merito per difendere la giurisdizione (il Tribunale di Napoli) contro le stesse decisioni della Corte costituzionale che aveva di fatto negato ogni tutela antiabusiva in caso di utilizzo di contratti a tempo determinato da parte delle pubbliche amministrazioni.

La sentenza n.260/2015, scritta in soli 10 giorni dopo la decisione adottata il 1 dicembre 2015 (in concomitanza, dunque, con l’udienza di discussione alle Sezioni unite della Cassazione sull’abuso in materia di precariato pubblico), appare innanzitutto una svolta di civiltà giuridica della Corte costituzionale rispetto a meno autorevoli e spesso, eticamente e giuridicamente, inaccettabili precedenti in subiecta materia di tutela dei diritti fondamentali nei confronti dello Stato e delle pubbliche amministrazioni, il cui lungo elenco è preferibile non riportare alla memoria degli interpreti, per meglio apprezzare quello che si annuncia un nuovo corso della giurisprudenza costituzionale.

La decisione è chiara, lineare, breve, secca nelle affermazioni e nelle censure nei confronti del legislatore del Porcellum, di cui ricostruisce analiticamente i grugniti pseudo-normativi anche quando riguardano l’attuale disciplina del settore nel Jobs act (art.29, co.3, d.lgs. n.81/2015), che dichiara irrilevante ai fini della decisione nel contempo, scardinandone implicitamente le fondamenta al punto 2: «Sul presente giudizio non incide la nuova disciplina in tema di contratti a tempo determinato delle fondazioni di produzione musicale, introdotta dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (…). Per effetto dell’art. 57, tale disciplina (artt. 23, comma 3, e 29, comma 3) si applica soltanto dal 25 giugno 2015, giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, e pertanto non concerne i diritti sorti nel vigore della normativa antecedente. Le novità normative non dispiegano alcuna influenza sul giudizio in corso, né alterano i termini della questione.».

Netta e senza distinguo e incertezze è la difesa della giurisdizione e della giurisprudenza della Cassazione a tutela della riqualificazione dei rapporti dei lavoratori saltuari dello spettacolo (lirico-teatrale), a prescindere dalla regola interna in concreto utilizzata per sanzionare gli abusi: «La norma impugnata lede, in pari tempo, l’affidamento dei consociati nella sicurezza giuridica e le attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria (sentenza n. 209 del 2010, per l’indissolubile legame che unisce tali valori dello stato di diritto, posti in risalto anche dall’ordinanza di rimessione della Corte fiorentina). L’affidamento, nel caso di specie, risultava corroborato da un assetto normativo risalente, imperniato sulla distinzione tra i rinnovi e le fattispecie di illegittimità originaria del contratto a tempo determinato, e da una giurisprudenza che gli stessi lavori parlamentari menzionano e che la legge interpretativa consapevolmente ribalta, ripercuotendosi sui giudizi in corso e su vicende non ancora definite. La disciplina impugnata, priva di un appiglio semantico con la norma oggetto di interpretazione, lede, inoltre, l’autonomo esercizio della funzione giurisdizionale, in quanto è suscettibile di definire i giudizi in corso, travolgendo gli effetti delle pronunce già rese.».

Singolare e innovativa, dunque, è l’individuazione della norma interna censurata con la declaratoria di illegittimità costituzionale, che formalmente è l’art.40, co.1-bis, d.l. n.69/2013, ma sostanzialmente è tutta la normativa “speciale” che disciplina i contratti a tempo determinato nel settore, innanzi richiamata (in particolare l’art.3, co. 6, primi tre periodi, d.l. n.64/2010 e l’art.3, co. 4 e 5, l.n.426/1977), che nega ogni tutela riqualificatoria, mentre la effettiva sanzione contro gli abusi discende dai principi civilistici, applicati dalla Cassazione e recentemente confermati dalla Suprema Corte[73] dopo la sentenza Fiamingo della Corte giustizia[74], ai sensi dell’art.1344 c.c.[75] e dell’art.1418 c.c. in combinato disposto.

Afferma infatti la Consulta al punto 6: «L’illegittimità costituzionale della norma, in quanto retroattiva, si coglie anche sotto un distinto e non meno cruciale profilo. Nell’estendere il divieto di conversione del contratto a tempo determinato oltre i confini originariamente tracciati, includendo anche l’ipotesi di un vizio genetico del contratto a tempo determinato, la norma pregiudica un aspetto fondamentale delle tutele accordate dall’ordinamento ai rapporti di lavoro, in un contesto già connotato in senso marcatamente derogatorio rispetto al diritto comune.».

Qui si apprezza la vera novità della sentenza commentata: scompare nella riflessione del giudice delle leggi ogni riferimento al parametro costituzionale violato, che, per esclusione, rimane il 2° indicato dalla Corte di appello di Firenze degli artt.6 e 13 della Convenzione Edu in riferimento all’art.117, co.1, Cost., come si ricava dal dispositivo di cui al punto 3: «La questione è fondata». L’esclusione della delibazione del primo parametro costituzionale, che il giudice di rinvio aveva invocato – l’art.3 Cost. «per asserita disparità di trattamento tra i lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche e i lavoratori del settore privato» – perché «assorbite le censure» dall’accoglimento della violazione delle norme convenzionali, è inusuale e apparentemente criptica (come vedremo), oltre che confinata all’ultimo punto 7 della sentenza.

Null’altro. Non un richiamo alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, niente sentenze Agrati, Maggio, Arras, ecc. Nessuna spiegazione sul contenuto delle norme convenzionali violate, sulla loro penetrazione nell’ordinamento interno attraverso l’art.117, co.1, Cost. nel diritto vivente della interpretazione della Corte di Strasburgo. In questo atteggiamento di silenzio assoluto sulla giurisprudenza Cedu l’ordinanza n.274/2015 è coerente con la sentenza n.260/2015, depositata 11 giorni prima ma decisa 13 giorni dopo, stesso Estensore. Ovviamente con decisioni diametralmente opposte.

  1. Le ragioni oggettive del contratto a termine nella sentenza n.260/2015 della Consulta e l’incompatibilità Ue del d.lgs. n.81/2015

In realtà, tutta l’indagine della Corte costituzionale, utilizzando il primo comma dell’art.117 Cost.[76] nella sua interezza dispositiva e impositiva di obblighi (costituzionali, Ue e internazionali) cogenti al legislatore statale si sposta sulla (in)compatibilità della normativa speciale (complessivamente considerata) dei lavoratori delle Fondazioni lirico-sinfoniche con il diritto dell’Unione europea e, in particolare, con la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, recepito dalla direttiva 1999/70/Ce.

La Corte delle leggi propone una analitica ed esaustiva disamina delle condizioni essenziali per la legittimità apposizione del termine al contratto di lavoro, distinguendo le ragioni oggettive temporanee che giustificano l’eccezione alla regola del contratto a tempo indeterminato [clausola 5, n.1, lett.a), dell’accordo quadro] rispetto alla disciplina dei rinnovi e dei contratti successivi [clausola 5, n.1, lett.b) e c), nonché clausola 5, n.2, lett.a) dell’accordo quadro] sia ai fini delle misure preventive che delle sanzioni antiabusive.

Così, infatti, precisa la Corte costituzionale al punto 5 della sentenza n.260/2015: ««Nel sancire che il divieto di conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato non è circoscritto alla materia dei rinnovi e a quella connessa delle proroghe, ma investe ogni ipotesi di «violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine», la norma impugnata non enuclea una plausibile variante di senso dell’art. 3, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 64 del 2010 e dell’art. 3, quarto e quinto comma, della legge n. 426 del 1977. La norma, oggetto di interpretazione, contiene un riferimento specifico ai rinnovi dei contratti a termine. Secondo il significato proprio delle parole, che è canone ermeneutico essenziale (art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale), il vocabolo “rinnovo” evoca un concetto diverso rispetto a quello dell’illegittimità del termine, apposto al primo contratto. Se il rinnovo attiene alla successione dei contratti e all’aspetto dinamico del rapporto negoziale, la questione scrutinata nel giudizio principale verte su un vizio genetico, che inficia il contratto sin dall’origine. Non a caso, il legislatore esclude ogni equiparazione tra il rinnovo e l’illegittimità originaria del termine nella disciplina dei contratti a tempo determinato. “Rinnovo” è termine tecnico, riscontrabile in tutta la legislazione sui contratti a tempo determinato, e approda inalterato fino agli sviluppi più recenti. L’autonomia concettuale dei rinnovi traspare da una trama, variegata e coerente, di disposizioni, i cui fili essenziali legano la legge n. 230 del 1962, che disciplina la materia all’art. 2, al d.lgs. n. 368 del 2001, che al tema delle proroghe e della successione dei contratti dedica gli artt. 4 e 5, e, da ultimo, si allacciano al d.lgs. n. 81 del 2015, che menziona le proroghe e i rinnovi all’art. 21. Anche la disamina della disciplina di settore conferma tale autonomia concettuale e dimostra che è proprio nella regolamentazione delle proroghe e dei rinnovi che risiede la peculiarità dei contratti a tempo determinato nelle fondazioni lirico-sinfoniche. L’intero assetto normativo è attraversato da questi princípi…… Anche l’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 81 del 2015, ribadisce, con riguardo alle proroghe e alle successioni dei contratti, la disciplina derogatoria dei contratti a tempo determinato nelle fondazioni lirico-sinfoniche…..Non si può ritenere, pertanto, che la norma interpretativa sia servita al legislatore, per emendare un’imperfezione del testo originario, ripristinando il significato autentico della disposizione interpretata, o che abbia risolto contrasti interpretativi, forieri di incertezze rilevanti.»».

Sostanzialmente, dunque, la Corte costituzionale da un lato (come la Cassazione) evita accuratamente di analizzare anche l’art.3, co.6, 2° e 3° periodo, d.l. n.64/2010, cioè i due commi che sostanzialmente escludevano il vizio genetico del rapporto a termine come motivo di conversione a tempo indeterminato del contratto di lavoro, sia nella vigenza dell’art.1, co.2, lett.e), della l.n.230/1962 sia con la nuova disciplina dell’art.1, co.1 e 2, d.lgs. n.368/2001; dall’altro, valorizza le ragioni oggettive temporanee come misura effettiva (e indispensabile) di legittima apposizione del termine, svalutando di fatto tutta la legislazione del Jobs act nella disciplina del contratto a tempo determinato di cui agli artt.19-29 d.lgs. n.81/2015, fondata sulla dichiarata (sul piano della comunicazione mediatico-istituzionale), ma non scritta acausalità dei contratti temporanei (anche con contratto di somministrazione di lavoro a t.d.) e sulla indifferenza “ontologica” tra proroghe e rinnovi contrattuali[77].

Il sigillo di questa dirimente soluzione interpretativa – coerente con la giurisprudenza della Cassazione dalla sentenza n.12985/2008 sul primo e unico contratto a tempo determinato che necessita di rigorosa specificazione delle ragioni oggettive temporanee e della prova della loro sussistenza fino alle sentenze della Suprema Corte sul lavoro marittimo – lo troviamo nella parte finale della breve lectio magistralis della Consulta sul rapporto tra diritto comunitario e normativa interna di recepimento della direttiva 1999/70/CE, con il richiamo puntuale alla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo: «Del resto, con riguardo ai lavoratori dello spettacolo, la Corte di giustizia ha valorizzato il ruolo della “ragione obiettiva” come mezzo adeguato a prevenire gli abusi nella stipulazione dei contratti a tempo determinato e come punto di equilibrio tra il diritto dei lavoratori alla stabilità dell’impiego e le irriducibili peculiarità del settore (sentenza 26 febbraio 2015, nella causa C-238/14, Commissione contro Granducato di Lussemburgo, che riprende le affermazioni della sentenza della Corte di giustizia, 26 novembre 2014, nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri).».

Le due importanti e recenti decisioni della Corte di giustizia citate dalla Corte costituzionale attengono, non a caso, una all’abuso contrattuale nel lavoro privato (Commissione c. Granducato di Lussemburgo) e l’altra a quello nel pubblico impiego (Mascolo), evidenziando così il giudice delle leggi l’equiparazione nella giurisprudenza europea delle condizioni di impiego (e quindi le misure sanzionatorie in caso di abusivo utilizzo) per quanto riguarda la flessibilità in entrata, a prescindere dalla natura pubblica o privata del datore di lavoro, come peraltro già precisato dalla Corte europea nella sentenza Carratù[78] sulla natura di organismo statale di Poste italiane e sull’applicabilità delle sanzioni del d.lgs. n.368/2001 anche alle pubbliche amministrazioni (sentenza Mascolo, punto 55, cit.).

Va detto che la Corte di giustizia ha più volte chiarito che non vi è un obbligo del legislatore interno di indicare come misura preventiva quella delle ragioni obiettive, anche se ritenuta un mezzo efficace[79] (il più efficace, si dovrebbe aggiungere, almeno per quanto riguarda l’ordinamento italiano) per prevenire e, eventualmente, sanzionare gli abusi nella successione dei contratti a tempo determinato, in quanto «gli Stati membri dispongono di un’ampia discrezionalità per l’attuazione della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, dal momento che essi hanno la scelta di far ricorso a una o più fra le misure enunciate nel punto 1, lettere da a) a c), di detta clausola, oppure a norme giuridiche equivalenti già esistenti, e ciò tenendo conto delle esigenze di settori e/o di categorie specifici di lavoratori (v. sentenze Impact, EU:C:2008:223, punto 71; Angelidaki e a., EU:C:2009:250, punti 81 e 93, nonché Deutsche Lufthansa, EU:C:2011:129, punto 35)» (sentenza Fiamingo, punto 59).

Tuttavia, la stessa Corte di giustizia ha anche chiarito con la sentenza Márquez Samohano[80] la natura “ontologica” delle ragioni oggettive temporanee quale condizione “causale” legittimante il ricorso al contratto a tempo determinato (punti 43-44), quando, come nella fattispecie del processo principale di un docente associato assunto a tempo parziale e a termine con vari contratti consecutivi da un’Università spagnola, l’ordinamento interno non aveva previsto alcuna misura idonea a prevenire gli abusi nella successione contrattuale. Identiche condizioni “normative” si sono verificate con la scuola pubblica italiana nella sentenza Mascolo e con i lavoratori saltuari dello spettacolo con la sentenza Commissione c. Granducato di Lussemburgo, che infatti richiama al punto 34 la sentenza Márquez Samohano.

Inoltre, con l’ordinanza León Medialdea[81], pronunciata immediatamente dopo la sentenza Mascolo, la Corte di Lussemburgo censura il tentativo fraudolento del legislatore iberico di trasformare i contratti a tempo determinato successivi abusivi nel pubblico impiego in contratti di lavoro a tempo indeterminato non permanente (relación laboral por tiempo indefinido no fijo) e li riqualifica in veri e propri contratti a tempo determinato rientranti nel campo di applicazione della direttiva 1999/70/CE; in conseguenza, la Corte di giustizia ha riconosciuto l’insussistenza di misure preventive e sanzionatorie contro gli abusi in caso di successione contrattuale, rinviando al giudice nazionale il compito di valutare, con una interpretazione conforme al diritto dell’Unione, prendendo in considerazione la legislazione, i contratti collettivi e/o le prassi nazionali, di quale natura debba essere l’indennità accordata ad un lavoratore come la ricorrente nel procedimento principale (giornalista addetto stampa di un Comune) affinché detta indennità costituisca una misura sufficientemente effettiva allo scopo di sanzionare gli abusi, ai sensi della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.

Nella causa spagnola l’unica interpretazione conforme al diritto dell’Unione, previa eventualmente ma non necessariamente (trattandosi di pubblica amministrazione/Stato, nei cui confronti si profila l’applicazione verticale delle norme UE) la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma interna dichiarata in contrasto con la disciplina europea, era quella di estendere al personale a tempo determinato in regime di relación laboral por tiempo indefinido no fijo le stesse condizioni di lavoro applicate ai lavoratori di ruolo a tempo indeterminato comparabili in caso di risoluzione definitiva del rapporto di lavoro.

  1. Il falso problema della natura pubblica del datore di lavoro abusante: la Corte costituzionale applica la sentenza Carratù della Corte di giustizia

Questo spiega l’“assorbimento” – nella censura costituzionale di incompatibilità Ue (più che nella violazione delle norme convenzionali, sviluppate solo nell’ordinanza di rinvio) da parte della Corte costituzionale nella sentenza n.260/2015 – della violazione denunciata dell’art.3 Cost.: la parità di trattamento sanzionatorio tra lavoratori “pubblici” delle Fondazioni lirico-sinfoniche e lavoratori alle dipendenze delle imprese (totalmente) private non ha alcun senso, una volta verificata la parità di condizioni di lavoro e di tutele sanzionatorie in entrata tra lavoratori pubblici e dipendenti privati.

Peraltro, dalla narrativa del “fatto” nella sentenza n.260/2015 risulta che l’Avvocatura dello Stato ha difeso[82] la norma interpretativa con la motivazione dell’eccessivo costo per le risorse pubbliche – da cui le Fondazioni liriche sono finanziate – in caso di riqualificazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato “abusati”, con espresso richiamo della sentenza n.153/2011 della Corte costituzionale che le ha qualificate organismi nazionali di diritto pubblico (sostanzialmente Enti pubblici non economici), evidenziandone la natura pubblicistica anche dell’attività svolta.

La Corte costituzionale ha ignorato la difesa erariale sul punto e il precedente della sentenza n.153/2011 invocato dall’Avvocatura dello Stato nella memoria di intervento, limitandosi a gettare nella mischia per fare chiarezza la sentenza Mascolo e così, implicitamente, la lapidaria affermazione della Corte di giustizia, secondo cui ragioni finanziarie non possono giustificare il sistema di reclutamento scolastico per supplenze e la sua attitudine a precarizzare i rapporti di lavoro a termine nella scuola pubblica senza misure preventive e sanzionatorie: «A tale riguardo, va ricordato che, sebbene considerazioni di bilancio possano costituire il fondamento delle scelte di politica sociale di uno Stato membro e possano influenzare la natura ovvero la portata delle misure che esso intende adottare, esse non costituiscono tuttavia, di per sé, un obiettivo perseguito da tale politica e, pertanto, non possono giustificare l’assenza di qualsiasi misura di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro (v., per analogia, sentenza Thiele Meneses, C‑220/12, EU:C:2013:683, punto 43 e giurisprudenza ivi citata)» (sentenza Mascolo, punto 110).

La Corte costituzionale nella sentenza n.260/2015 si è, così, perfettamente adeguata a quanto deciso dalla Corte di giustizia nella sentenza Carratù sulla natura di organismo pubblico nazionale di Poste italiane e sulla normativa applicabile in caso di abusivo utilizzo di contratti a tempo determinato.

A tal proposito, sul divieto di conversione nel pubblico impiego e sulla disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati per quanto riguarda le sanzioni antiabusive, l’Avvocatura dello Stato nella memoria di intervento nella causa incidentale sui lavoratori delle Fondazioni liriche propone le stesse argomentazioni fatte da Poste italiane nelle osservazioni scritte[83] della causa Carratù, per negare la “convenienza” della lavoratrice portalettere, con un solo contratto a tempo determinato di tre mesi già “convertito” a tempo indeterminato dal Tribunale di Napoli con sentenza parziale, a vedere riconoscere nel giudizio pregiudiziale la natura di organismo pubblico, sospettata dal giudice partenopeo come settima e ultima questione.

Come nella causa Carratù per Poste italiane, anche le Fondazioni lirico-sinfoniche il divieto di conversione previsto dall’art.36, co.5, d.lgs. n.165/2001 non è stato collegato al concorso pubblico, ma alla salvaguardia del bilancio dello Stato e delle finanze pubbliche.

L’impresa pubblica ha affermato nelle osservazioni scritte che il riconoscimento della natura di ente o organismo pubblico non rientrava nelle convenienze della lavoratrice, perché in questo caso avrebbe avuto diritto soltanto al risarcimento del danno e non alla conversione in contratto a tempo indeterminato, applicandosi l’art.36, co.5, d.lgs. n. 165/2001 e il famoso e accertato (così è stato definito all’udienza del 5 giugno 2013 in Corte di giustizia) divieto di conversione contrattuale per violazione dell’art.97, co.3, della Costituzione, previsto per le pubbliche amministrazioni.

Viceversa, la decisione inaspettata e più dirompente della Corte di giustizia nella sentenza Carratù è proprio quella sulla settima questione sollevata dal Tribunale di Napoli sulla natura pubblica di Poste italiane, che addirittura «occorre esaminare in primo luogo» per il Collegio della Carratù, nonostante il giudice del rinvio ne avesse chiesto una risposta subordinata a quella (eventualmente) negativa rispetto alle prime sei.

Durissima e sintetica, infatti, è la risposta della Corte di giustizia nella sentenza Carratù ai punti 30-31: «30 Nella fattispecie in esame, dalla domanda di pronuncia pregiudiziale e dalle osservazioni presentate alla Corte risulta che, come rilevato dall’avvocato generale nei paragrafi 106 e seguenti delle sue conclusioni, Poste Italiane è interamente posseduta dallo Stato italiano mediante il suo azionista unico, il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Inoltre, essa è posta sotto il controllo dello Stato e della Corte dei Conti, un membro della quale siede nel consiglio di amministrazione. 31 Di conseguenza, si deve rispondere alla settima questione dichiarando che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che può essere fatta valere direttamente nei confronti di un ente pubblico, quale Poste Italiane.».

Rispetto, poi, all’eccezione proposta nelle osservazioni scritte da Poste italiane sull’applicabilità dell’art.36, co.5, d.lgs. n.165/2001 la sentenza Carratù si limita a trascrivere la normativa interna applicabile alla fattispecie, cioè l’art. 1, co.1 e 2, d.lgs. n.368/2001 e non vi è traccia della specifica “norma sanzionatoria” che punirebbe gli abusi delle pubbliche amministrazioni.

L’interpretazione è chiara, soprattutto alla luce della sentenza Mascolo: il decreto legislativo n.368 del 2001 si applica a tutti i datori di lavoro pubblici e privati come normativa unica di recepimento della direttiva 1999/70/CE, non a caso ora abrogata dal d.lgs. n.81/2015 che non richiama più neanche in subiecta materia della nuova disciplina del contratto a tempo determinato l‘accordo quadro comunitario che l’ordinamento interno aveva attuato.

Così come è altrettanto chiaro che la Corte costituzionale nella sentenza n.260/2015 ha abbandonato completamente i propri precedenti sul divieto di conversione nel pubblico impiego, per seguire il percorso tracciato dalla Corte di giustizia nella sentenza Carratù ma, già in passato, anticipato da altri pregevoli precedenti della Consulta.

Come è noto, il metagiuridico divieto di conversione nel pubblico impiego nel caso di mancato espletamento di concorso pubblico per tutti i lavoratori a tempo determinato, che discenderebbe dall’art. 97, co.3, Cost., ha trovato la sua prima più compiuta enunciazione nella citata sentenza della Corte costituzionale sui bidelli[84], che il concorso per legge non lo hanno mai fatto, accedendo al reclutamento stabile attraverso graduatorie permanenti per soli titoli.

In una recentissima sentenza depositata il 7 dicembre 2015, ma decisa il 15 ottobre 2015 prima della discussione davanti alle Sezioni sulla sanzione adeguata in caso di abusivo utilizzo dei contratti a termine nel pubblico impiego, la Suprema Corte[85] – nel negare il divieto di conversione a tempo indeterminato di un operaio forestale dell’Ente foreste Sardegna nonostante la violazione dell’art.1, co.1 e 2, d.lgs. n.368/2001 per un contratto a tempo determinato iniziato il 1 aprile 2015 per il tramite dei servizi per l’impiego ai sensi dell’art.16 della l. n.56/1987 ma privo di forma scritta – continua a giustificare la mancata applicazione ai lavoratori pubblici della stessa tutela prevista per i lavoratori privati in ragione della natura pubblica del rapporto di lavoro e dell’applicazione dell’art.36, co.5, d.lgs. n.165/2001: «la Corte Costituzionale, con la fondamentale sentenza n. 89 del 27 marzo 2003, affermando la compatibilità del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 36, comma 2 (che all’epoca prevedeva il divieto di conversione dei contratti a termine, materia ora disciplinata dal comma 5 dello stesso articolo) con l’articolo 3 Cost., ha affermato che il principio fondamentale che connota l’instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e lo differenzia dal lavoro privato è quello dell’accesso mediante concorso.».

In realtà, nella «fondamentale sentenza» n.89/2003 la Corte costituzionale aveva dimenticato l’inciso e ultima parte dell’art.97 co.3 Cost. «salvo i casi stabiliti dalla legge», che consente dunque deroghe alla regola del concorso, seppure legislativamente disposte.

Infatti, con la sentenza n.81/1983 la Corte costituzionale aveva legittimato la discrezionalità del legislatore di ricorrere all’assunzione nel pubblico impiego con modalità diverse da quelle concorsuali, salvo il rispetto del criterio della razionalità dell’intervento: «non può negarsi al legislatore un’ampia discrezionalità nello scegliere i sistemi e le procedure per la costituzione del rapporto di pubblico impiego e per la progressione in carriera; il limite a questa discrezionalità è dato essenzialmente dall’art. 97, primo comma, Cost., dal quale discende la necessità che le norme siano tali da garantire il buon andamento della P.A.; il che, per quanto attiene al momento della costituzione del rapporto d’impiego, consiste nel far sì che nella P.A. siano immessi soggetti i quali dimostrino convenientemente la loro generica attitudine a svolgere le funzioni che vengono affidate a chi deve agire per la P.A. e, per quanto attiene alla progressione, consiste nel valutare congruamente e razionalmente la attività pregressa del dipendente, sì da trarne utili elementi per ritenere che egli possa bene svolgere anche le funzioni superiori. A tal fine lo stesso art. 97, terzo comma, ritiene che il sistema preferibile per la prima ammissione in carriera, e cioè per l’accertamento della predetta generica attitudine sia quello del pubblico concorso: ma non lo eleva a regola assoluta, lasciando libero il legislatore di adottare sistemi diversi, purché anch’essi congrui e ragionevoli in rapporto al fine da raggiungere ed all’interesse da soddisfare.».

In perfetta coerenza con il precedente di dieci anni prima, la stessa Corte costituzionale con la sentenza n.266/1993 aveva dichiarato illegittima una norma della Regione Sicilia che aveva previsto un concorso riservato per figure professionali, il cui accesso stabile alla pubblica amministrazione era invece regolamentato dalla norma statale dell’art. 16 della l. n. 56/1987, cioè per il tramite degli (ex) Uffici del lavoro.

Viceversa, dieci anni dopo, i collaboratori scolastici (Corte Cost. 27 marzo 2003, n. 89) devono fare il concorso, nonostante l’unica modalità di accesso stabile presso la pubblica amministrazione scolastica sia rappresentata (e regolata per legge) dall’inserimento nelle graduatorie per soli titoli (diploma di scuola media inferiore e servizi lavorativi), cioè secondo le condizioni di accesso e di progressione mutuate dall’art. 16 della l. n. 56/1987.

In realtà, il Tribunale di Torino[86] nel gennaio 2001 aveva investito la Consulta della questione di costituzionalità dell’art.36, c.8, d.lgs. n.29/1993 (come modificato dall’art. 22 d.lgs. n.80/1998), in riferimento all’art.3 della Costituzione, nella parte in cui la norma impugnata escludeva che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni potesse comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, precludendo l’accoglimento delle domande proposte nel giudizio principale dai ricorrenti, i quali – insegnanti di scuola secondaria presso il Provveditorato agli Studi di Torino, in forza di successivi contratti di lavoro di durata annuale – agivano nei confronti dell’Amministrazione scolastica perché fosse dichiarato il loro diritto ad essere considerati dipendenti a tempo indeterminato, ai sensi degli artt. 1 e 2 della l. n. 230/1962.

Con l’ordinanza n.251/2002 la Corte costituzionale aveva dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art.36, c.8, d.lgs. n.29/1993, utilizzando argomentazioni esattamente antitetiche rispetto a quelle che saranno proposte – su identica fattispecie – nella sentenza n.89/2003, in cui ha dichiarato infondata la pregiudiziale costituzionale dell’art.36, co.2, d.lgs. n.165/2001, norma identica a quella delibata nel precedente giudizio.

La Corte nell’ordinanza n.251/2002 contesta, infatti, al Giudice del rinvio di aver apoditticamente affermato che i rapporti di lavoro a tempo determinato con la pubblica amministrazione siano, a seguito della intervenuta privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, disciplinati esclusivamente dalla legge n. 230 del 1962, facendo «discendere, da un lato, la (pur implicita) qualificazione dei contratti a termine stipulati dall’amministrazione con i ricorrenti come contratti contra legem e, dall’altro, la valutazione di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della norma denunciata in quanto preclusiva, per i soli dipendenti delle pubbliche amministrazioni, della possibilità di trasformazione dei rapporti a termine stipulati in violazione degli artt. 1 e 2 della legge n. 230 del 1962 in rapporti di lavoro a tempo indeterminato», senza farsi carico dell’esistenza di una articolata disciplina speciale delle supplenze annuali e temporanee nella scuola, contenuta nell’art. 4 della legge n.124/1999, e omettendo qualsiasi riferimento alla citata disciplina e al rapporto in cui la stessa si porrebbe con la legge n. 230/1962, ritenuta applicabile nel giudizio a quo.

Qualche mese dopo, con la sentenza n.89/2003, ai collaboratori scolastici per contratti a tempo determinato stipulati ai sensi dello stesso art.4 della legge n.124/1999 la Corte costituzionale negherà ogni tipo di tutela (non si parla neanche di risarcimento dei danni), perché non potevano pretendere un posto stabile nella pubblica amministrazione senza aver superato un concorso che, diversamente dal personale docente, non erano tenuti neanche a fare, mentre le legittime supplenze (argomento ex ordinanza n.251/2002 della Consulta), improvvisamente, si trasformavano in contratti contra legem per il fatto stesso di aver chiesto la tutela giudiziale e di aver preteso la “conversione” dei rapporti a termine.

La Corte costituzionale dalla sentenza n.89/2003 in poi (fino alle due ordinanze “gemelle” n.206 e 207 del 2013), dopo la contrattualizzazione del pubblico impiego, si è attestata sulla posizione granitica della salvaguardia del principio del pubblico concorso ex art.97, co.3, Cost. come modalità principale e prevalente di accesso al reclutamento stabile nel pubblico impiego, ribadendo la legittimità del divieto di conversione dei contratti flessibili enunciato dall’art.36, co.2 (ora co.5), d.lgs. n.165/2001, in caso di violazione di norme imperative di legge in materia di reclutamento e di impiego.

L’ordinanza di rimessione del Tribunale di Pisa sui collaboratori scolastici, come quella del Tribunale di Torino sui docenti precari, è intervenuta in un momento in cui la Direttiva 1999/70/CE era stata già recepita dal D.Lgs. n. 368/2001, anche se la regolamentazione normativa dei contratti a termine era ancora quella della previgente disciplina interna.

La Corte costituzionale nella sentenza n.89/2003 ha ignorato il fatto che le norme sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale rientravano nell’ambito di applicazione del diritto comunitario e, con la sentenza 89/2003, ha dichiarato la legittimità costituzionale dell’art. 36, co.2, D.Lgs. n. 165/2001, affermando del tutto fuori tema (decidendi) che il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello, del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97, comma 3, Cost.

In effetti, il principio del pubblico concorso non aveva valenza né teorica né pratica (e quindi la sentenza è sbagliata “in fatto”), ma la Consulta aveva anche invaso anche il campo interpretativo della Corte di Giustizia, mettendo in discussione delicati equilibri istituzionali e costituzionali (era già intervenuta anche la modifica dell’art. 117 Cost., con la legge costituzionale 3/2001).

Si tratta, dunque, nel caso della sentenza n.89/2003 della Corte costituzionale di pronuncia fuori contesto normativo e che esula da una seria motivazione di tipo giuridico, per trasformarsi esclusivamente in un evidente monito di politica giudiziaria al legislatore per accelerare le assunzioni a tempo indeterminato attraverso procedure selettive nella scuola con cadenza triennale.

In conclusione, la decisione n.260/2015 del giudice delle leggi è una sentenza di sistema sui corretti rapporti tra le fonti sovranazionali e l’ordinamento interno per la tutela effettiva dei diritti fondamentali dei lavoratori precari, che pare chiudere la stagione sia degli scontri con la Corte europea dei diritti dell’uomo che del poco dialogo con la Corte di giustizia, ma che sembra accantonare anche la teoria del “controlimite” del parametro interposto Cedu (o della normativa comunitaria) e che, soprattutto, difende la giurisdizione e la Cassazione dalle interferenze del legislatore con le norme interpretative e/o retroattive.

  1. La Cassazione e l’irretroattività del Jobs act sulla disciplina delle decadenze e della sanzione onnicomprensiva

 

Prima della sentenza n.260/2015 della Corte costituzionale, la Suprema Corte con la sentenza n.21226/2015[87] si è pronunciata per la prima volta su una fattispecie processuale di successione di leggi che definiscono le conseguenze sanzionatorie in caso di abuso del contratto di lavoro a tempo determinato.

Il Giudice di legittimità cerca di sanare il (presunto) vuoto normativo creato nel passaggio ad una nuova disciplina sanzionatoria processuale e sostanziale in caso (esclusivamente) di abusi nella successione dei contratti a tempo determinato e lo fa, innanzitutto, confermando condivisibilmente la novità “strutturale” e terminologica della disposizione sulla tutela dell’art.28, co.2, d.lgs. n.81/2015 e la sua inapplicabilità alla fattispecie di causa, anche per la mancanza di una disciplina transitoria o/o di collegamento con la precedente norma abrogata (art.32, co.5, l. n.183/2010), applicabile ai giudizi in corso fino al 24 giugno 2015.

Dopo questa presa di posizione, di indubbio valore nomofilattico e che mette un primo punto fermo al vizio legislativo delle norme interpretative e/o con efficacia retroattiva – di cui l’art.32, co.7, l.n. 183/2010 è uno degli esempi più eclatanti per quanto riguarda l’indebita ingerenza sui processi in corso – la Cassazione tenta invece di recuperare l’ultrattività della precedente sanzione (abrogata) dell’art.32, co.5, l.n.183/2010 attraverso il richiamo che ne fa il co.7 dello stesso articolo (non abrogato).

Sul punto, le argomentazioni della decisione in esame non possono essere condivise, perché l’abrogazione della norma sostanziale fa perdere di valore ed efficacia, in tutta evidenza, la norma processuale che ad essa è collegata e che, appunto, non ha alcuna necessità di abrogazione esplicita.

D’altra parte, un’interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata di tale nuovo assetto normativo induce a ritenere o comunque a non escludere (al di là dell’intentio legis, come peraltro segnala la Corte di giustizia al punto 60 della sentenza Mascolo in relazione all’applicazione dell’art.5, co.4-bis, d.lgs. n.368/2001), che la volontà “formale” del legislatore del Jobs act fosse quella di dare esecuzione ed effettività alla pronuncia Carratù della Corte di giustizia e cancellare, così, sui processi in corso, quel grave vulnus causato da una norma che è andata ad incidere, modificando in maniera ingiustificata la sanzione antiabusiva in danno dei lavoratori, la tutela già riconosciuta ai contratti stipulati fino al 24 novembre 2010 dalla consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito.

Analogo discorso deve proporsi in relazione all’applicazione del regime decadenziale introdotto dall’art.32, co.1, l. n.183/2010 anche per contratti a tempo determinato stipulati a decorrere dal 24 novembre 2010 e fino al 24 giugno 2015 e non impugnati giudizialmente.

Infatti, l’art.32, co.3, let.a), l. n.183/2010, come detto, è stato abrogato per la parte relativa all’impugnativa dei licenziamenti che presuppongono la  risoluzione di questioni relative «alla nullità del termine apposto al contratto di  lavoro,  ai  sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n.368, e successive modificazioni. Laddove si  faccia questione della nullità del termine apposto al contratto, il termine di cui al primo comma del predetto articolo 6,  che  decorre  dalla cessazione del medesimo contratto, è  fissato  in centoventi giorni, mentre il termine di cui al  primo  periodo  del secondo comma del medesimo articolo 6 è fissato in centottanta giorni» [la parte virgolettata è quella specificamente abrogata dall’art.55, co.1, let.f), d.lgs. n.81/2015].

Viceversa, non è stato abrogato ed ancora in vigore l’art.32, co.4, l. n.183/2010 nella parte in cui prevede l’applicazione della disciplina delle decadenze di cui all’art.32, co.1, del Collegato lavoro anche ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli artt.1, 2 e 4 d.lgs. n.368/2001, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della stessa novella [let.a)], sia a quelli già conclusi alla data del 24 novembre 2010, anche in applicazione delle disposizioni previgenti al d.lgs. n.368/2001 [let.b)].

Le scelte legislative vanno rispettate (soltanto) se sono ricondotte nell’alveo di un’interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata, come in definitiva riviene dalla stessa ermeneutica letterale e testuale della disciplina previgente e di quella ora operante.

Lo ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n.260/2015 in relazione alle necessarie ragioni oggettive temporanee per giustificare il ricorso al contratto a tempo determinato, anche nell’ambito della nuova disciplina del d.lgs.n.81/2015 che esclude ogni tipo di tutela sulla successione dei contratti a tempo determinato sia per i lavoratori saltuari dello spettacolo sia tutti gli altri lavoratori privati e pubblici assunti a termine, per inadeguatezza della misura sanzionatoria del superamento della durata massima complessiva dei tre anni di cui all’art.19, co.2, d.lgs. n.81/2015, stante anche la modifica peggiorativa ed elusiva di ogni tutela rispetto alla precedente disposizione abrogata dell’art.5, co.4-bis, d.lgs. n.368/2001, già censurata dall’Ufficio del Massimario della Cassazione[88] ed ora sottoposta al vaglio di compatibilità Ue delle Sezioni unite della Suprema Corte sia sui contratti acausali Poste[89] sia sulla sanzione adeguata in caso di abusivo utilizzo dei contratti a tempo determinato nel pubblico impiego[90].

In conclusione, ai giudizi in corso – alla data del 25 giugno 2015 – per la riqualificazione di contratti a tempo determinato stipulati nella vigenza della l. n.230/1962 o del d.lgs. n.368/2001 potrà essere applicata soltanto la tutela “previgente” all’art.32, co.5, l.n.183/2010, cioè quella civilistica prevista dall’art.1419, co.2, c.c. nel caso di nullità del termine contrattuale dei contratti stipulati nella vigenza della l. n.230/1962 e quella speciale dell’art.1, co.2, d.lgs. n.368/2001 nel caso di assunzioni irregolari o illecite a tempo determinato.

Inoltre, i contratti a tempo determinato stipulati dal 24 novembre 2010 e fino al 24 giugno 2015 e non impugnati, ove irregolari o illeciti per violazione degli artt.1, 2 o 4 del d.lgs. n.368/2001, potranno essere delibati giudizialmente, venendo meno la condizione di ammissibilità dell’azione e non potendo né il giudice d’ufficio ai sensi dell’art.2969 c.c. né il datore di lavoro resistente invocare decadenze che ormai non appartengono all’ordinamento giuridico vigente al momento in cui si richiede la tutela del diritto.

Sicuramente non era questa la vera intentio legis del distratto normopoieuta del Jobs act.

Tuttavia, quando mancano i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico e la normativa, come nel caso di specie, non viene costruita nell’interesse generale ma contro qualcuno e in favore di qualcun altro, si ottengono risultati a dir poco aberranti fino a quando, grazie all’intervento delle Corti sovranazionali e al rinnovato vigore della nomofilachia della Cassazione costituzionalmente orientata, ora garantita anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n.260/2015, l’ordinamento interno riesce a ritrovare quasi magicamente itinerari interpretativi conformi all’effettività della tutela dei diritti fondamentali.

  1. La 2ª svolta “comunitaria” della Corte costituzionale sulla stabilizzazione del precariato regionale nella sentenza n.272/2015

 

Come già anticipato, pare a chi scrive che vi sia uno stretto collegamento, sicuramente temporale trattandosi di decisioni adottate dalle massime autorità giurisdizionali nazionali il 1 dicembre 2015, tra la questione della sanzione adeguata ed equivalente in caso di abusivo utilizzo di contratti a tempo determinato nel pubblico impiego (Sezioni unite della Cassazione) e l’altra sui lavoratori saltuari dello spettacolo lirico-sinfonico (Corte costituzionale).

Ebbene, il 1 dicembre 2015 è stato anche deciso dalla Corte costituzionale il ricorso principale proposto dalla Regione Veneto, che ha impugnato l’art. 41, co.2[91], della legge 23 giugno 2014, n.89, che il giudice delle leggi ha dichiarato illegittimo con sentenza n.272/2015[92] depositata il 22 dicembre 2015, nella parte in cui la norma nazionale prevede il blocco delle assunzioni di personale da parte delle Regioni, anche in relazione a processi di stabilizzazione in corso, per violazione degli artt.3, 97 co.2 e 117 co.4 Cost.

In passato, in più occasioni la Corte costituzionale aveva censurato le leggi regionali di stabilizzazione del personale pubblico, in particolare nel settore sanitario (cfr. 215[93] e 293[94] del 2009, nonchè 42/2011[95]), per violazione dell’art.97, co.3, Cost. e della regola del concorso pubblico.

In queste decisioni il giudice delle leggi non ha mai preso in considerazione il fatto che le normative regionali di stabilizzazione del precariato pubblico rientrassero nel campo di applicazione della direttiva 1999/70/CE (né alcuna eccezione in tal senso è stata mai mossa dalle Regioni interessate).

Dopo la sentenza Valenza[96] della Corte di giustizia la Corte costituzionale[97] è sembrata adeguarsi alla giurisprudenza europea e, richiamando sentenze del Consiglio di Stato[98] e della Cassazione a Sezioni unite[99], ha affermato che «le aziende sanitarie si caratterizzano, secondo il prevalente e consolidato orientamento interpretativo, per essere enti pubblici economici esercenti la loro attività utendo iure privatorum».

Fa una certa sensazione il fatto che, in conseguenza della sentenza n.89/2003 della Corte costituzionale, siano state sollevate ben tre cause pregiudiziali sul precariato sanitario regionale nei giudizi definiti dalle sentenze Marrosu-Sardino e Vassallo[100] e dall’ordinanza Affatato sull’art.36, co. 2 (poi co. 5), del d.lgs. n.165/2001 per poi scoprire che il divieto di conversione non è applicabile alle aziende sanitarie, che sono dal 1999 Enti pubblici economici e quindi soggetti imprenditori.

Verso una soluzione di questo genere si è orientata anche la Cassazione a Sezioni unite con la sentenza n.4685/2015[101], che ha definitivamente concluso al punto 14 per la non applicazione del divieto di conversione in caso di abusivo ricorso a contratti a tempo determinato almeno nei confronti del personale precario degli Enti pubblici economici (Cass., sez. lav., n.4062/2011) e delle società in house (Cass., sez. lav., n.23702/2013), con conseguente diritto alla riqualificazione a tempo indeterminato dei contratti flessibili almeno nella vigenza del d.lgs. n. 368/2001. Con una complessa motivazione le Sezioni unite nella sentenza n.4685/2015 sembrano attribuire la responsabilità della (mancata) stabilizzazione giudiziale del precariato pubblico alla Corte costituzionale e all’uso eccessivamente restrittivo della regola del concorso, soprattutto per quei profili professionali in cui la regola per l’accesso stabile è un’altra (l’art. 16, l. n. 56/1987[102]) o le procedure selettive sono state comunque espletate, seppure non con le caratteristiche del concorso pubblico per titoli ed esami.

La Corte costituzionale nella sentenza n.272/2015 fa un passaggio ulteriore e coerente con quanto pronunciato nella decisione n.260/2015 della stessa Consulta, in direzione di un più corretto inquadramento della materia delle stabilizzazioni regionali nel quadro di compatibilità Ue (non esplicitato) e di definizione delle competenze tra Stato e Regione in subiecta materia.

Sotto quest’ultimo profilo, la materia delle stabilizzazioni del precariato regionale viene condivisibilmente inquadrata (per la 1ª volta) nella competenza esclusiva delle Regioni («organizzazione amministrativa»), ai sensi dell’art.117, co.4, Cost., e quindi la norma nazionale viola tale precetto in combinato disposto con il principio di proporzionalità di cui all’art. 3, co.1,  Cost.

E’ sufficiente, all’uopo, evidenziare quanto precisato dalla Cassazione nella citata sentenza n.24808/2015 sugli operai forestali della Regione Sardegna, sul divieto di conversione nel pubblico impiego di questa categoria di lavoratori assunta attraverso i servizi per l’impiego e non il concorso pubblico: «La tesi qui affermata non determina infine i problemi di compatibilità costituzionale per contrasto con l’articolo 117 della Carta fondamentale, come sostituito dalla Legge Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, articolo 3, prospettati dal ricorrente, che sostiene che la nuova disposizione prevedrebbe una piena autonomia della Regione in materia di impiego del personale. Al riguardo basti osservare che la particolare autonomia attribuita dal nuovo articolo 117 Cost., in favore delle Regioni ordinarie vale anche per le Regioni a statuto speciale, in quanto “più ampia” rispetto a quelle previste dai rispettivi statuti (così Corte Cost. n. 274 del 2003, richiamata anche dal ricorrente). Costituisce poi indirizzo ormai costante della Corte Costituzionale quello secondo cui “per effetto dell’intervenuta privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che interessa, altresì, il personale delle Regioni, la materia é riconducibile all’“ordinamento civile” che l’articolo 117 Cost., comma 2, lettera l), riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Il legislatore nazionale quindi ben può intervenire a conformare gli istituti del rapporto di impiego attraverso norme che si impongono all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità, anche in relazione ai rapporti di impiego dei dipendenti delle Regioni” (sent. n. 19 del 2013, n. 286 del 2013, n. 211 del 2014). In altri termini, la disciplina del rapporto lavorativo dell’impiego pubblico privatizzato é rimessa alla competenza legislativa statale di cui all’articolo 117 Cost., comma 2, lettera l), in quanto riconducibile alla materia “ordinamento civile”, che vincola anche gli enti ad autonomia differenziata (così testualmente Corte Cost. n. 180 del 2015; cfr. anche le sentenze n. 77 del 2013, n. 151 del 2010, in relazione a Legge Regionale Valle d’Aosta; n. 95 del 2007, in relazione anche a leggi della Valle d’Aosta e del Trentino Alto Adige).».

Quindi, la Corte costituzionale ha cambiato improvvisamente orientamento sulla competenza legislativa in materia di rapporti di impiego dei dipendenti delle Regioni, facendola rientrare correttamente nell’alveo dell’art.117, co.4, Cost. e quindi della competenza esclusiva delle Regioni in materia di organizzazione amministrativa. Purtroppo, Cass. n.24808/2015 non poteva prevedere questo mutamento radicale della giurisprudenza costituzionale.

Sempre con riferimento alla lesione del principio di proporzionalità, la Corte costituzionale dichiara la norma impugnata dalla Regione Veneto confliggente anche con l’art. 97, co.2, Cost., dal momento che, se, da un lato, il blocco delle assunzioni è senz’altro suscettibile di pregiudicare il buon andamento della pubblica amministrazione, dall’altro lato la limitazione non risulta giustificata dalla tutela di un corrispondente interesse costituzionale. Esattamente il contrario rispetto a quanto affermato dalla stessa Consulta nella sentenza n.89/2003.

Scompare così ogni riferimento nella efficace e importante sentenza n.272/2015 del giudice delle leggi al pubblico concorso e alla violazione dell’art.97, co.3, Cost.

Pare a chi scrive che anche questa decisione rappresenti una svolta della Corte costituzionale nell’applicare, in combinato disposto con la sentenza sui precari pubblici delle Fondazioni lirico-sinfoniche, i principi costituzionali ed europei sul diritto alla stabilità lavorativa dei dipendenti a tempo determinato delle pubbliche amministrazioni, modificando la precedente giurisprudenza costituzionale.

E’ un momento di protagonismo positivo e attivo del giudice delle leggi nel dialogo con le Corti sovranazionali, in attesa che le Sezioni unite della Cassazione completino l’opera di ricostruzione del sistema di tutele intervenendo sia sulla questione della sanzione adeguata ed equivalente nel pubblico impiego a tempo determinato sia sulla vicenda dei contratti “acausali” di Poste italiane[103] dell’art.2, co.1-bis, d.lgs. n.368/2001 che, a rigore, dovrebbero aver già trovato la soluzione esaustiva a favore dei lavoratori nell’interpretazione adeguatrice della normativa interna già operata dalla sentenza del giudice delle leggi sui lavoratori saltuari delle Fondazioni lirico-sinfoniche.

  1. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati come tentativo dello Stato-apparato del Porcellum di condizionare la giurisdizione per negare l’effettività della tutela dei diritti garantiti dalla Costituzione e dall’Ue. La possibile risposta delle Sezioni unite della Cassazione.

 

A completare questo dinamico dialogo tra Corte costituzionale, Cassazione e Corti sovranazionali, è stato richiesto[104] alla Suprema Corte a Sezioni unite, come giudice di ultima istanza, di proporre alla Corte di giustizia otto istanze pregiudiziali Ue, una delle quali riguarda la (in)compatibilità con il diritto dell’Unione europea dell’attuale disciplina in materia di responsabilità civile dei magistrati, che l’avvocatura del libero foro (o almeno una parte di essa, si spera maggioritaria) ritiene che rappresenti una forma scorrettissima e pericolosissima per la stessa tenuta democratica del Paese di condizionamento da parte del Governo della giurisdizione, in favore degli interessi meno meritevoli di tutela della pubblica amministrazione e contro la tutela dei diritti fondamentali[105].

La scelta processuale dell’avvocatura è stata ritenuta essenziale ai fini della soluzione del procedimento sottoposto alla delibazione delle Sezioni unite e, più in generale, per il ripristino della legalità democratica e del corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale in una fattispecie di causa in cui parte processuale è la pubblica amministrazione, dal momento che il legislatore nazionale con la recente legge n.18/2015 ha inteso modificare la disciplina della responsabilità civile dei magistrati di cui alla legge n.117/1988, all’evidente fine di condizionare i giudici per negare l’effettività delle decisioni della Corte di giustizia (e non per rispettarne le indicazioni) quando si pronunciano in senso sfavorevole allo Stato quale parte del processo, come nel caso della sentenza Mascolo.

L’iter di formazione delle norme che hanno modificato la legge n.117/1988 è esemplare nella direzione innanzi indicata.

Il 1° ottobre 2013 è stato presentato al Senato il disegno di legge n.1070, che intendeva intervenire sul sistema sin qui disciplinato dalla legge 13 aprile 1988, n. 117, che regola il risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e la responsabilità civile dei magistrati.

Come chiarito nella relazione, il disegno di legge muoveva dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in tema di responsabilità per le decisioni degli organi giurisdizionali nazionali di ultima istanza in contrasto con il diritto dell’Unione, nelle sentenze Köbler[106], Traghetti del Mediterraneo[107] e Commissione europea contro Repubblica italiana[108].

In base a tali decisioni i giudici – come tutti gli organi statali, ivi comprese le autorità amministrative e gli enti locali – sono tenuti a disapplicare la normativa nazionale contrastante con il diritto dell’Unione fornito di efficacia diretta, ovvero, ove possibile, ad interpretare la prima conformemente al secondo, adottando i provvedimenti necessari ad assicurare ed agevolare la piena efficacia di tale diritto, proprio al fine di non determinare una responsabilità dello Stato in tal senso.

La Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art.2, co. 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado.

In buona sostanza, la Corte di giustizia si è pronunciata, in particolare nella sentenza del 24 novembre 2011 di inadempimento nei confronti dell’Italia, sulla compatibilità con il diritto dell’Unione della cosiddetta «clausola di salvaguardia», la quale esclude che per certe attività del giudice di ultima istanza sia configurabile alcuna forma di responsabilità dello Stato. La Corte ha specificato altresì che, allo scopo di valutare il carattere manifesto della violazione, deve farsi riferimento ai criteri della chiarezza e della precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione e alla non scusabilità dell’errore di diritto.

Per assicurare l’attuazione degli obblighi comunitari derivanti dalla sentenza del 24 novembre 2011 della Corte di giustizia il disegno di legge n.1070, nella iniziale stesura, proponeva una forte accentuazione del carattere nomofilattico della Cassazione e un sistema di filtro delle eventuali azioni di responsabilità dello Stato per violazione flagrante del diritto dell’Unione europea da parte dell’organo giurisdizionale di ultima istanza affidato alla Procura generale in Cassazione[109].

Subito dopo il DDL n.1070 veniva proposto dal Governo Letta il 28 novembre 2013, seguendo le indicazioni precettive della legge n.234/2012 contenente le «norme generali per la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea», l’art. 23, poi diventato art.30, (Responsabilità per violazione manifesta del diritto dell’Unione europea. Procedura di infrazione n. 2009/2230) del Disegno di legge n.1864 “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2013 bis, che così correttamente disponeva:

«1. Lo Stato è obbligato a risarcire il danno che, in pregiudizio di situazioni giuridiche soggettive, consegue alla violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado, sempre che, quando ne ricorrono i presupposti, siano stati esperiti anche i mezzi straordinari di impugnazione. L’azione si prescrive decorsi tre anni.

  1. Ai fini della determinazione della violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea di cui al comma 1 si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, della posizione adottata eventualmente da un’istituzione dell’Unione europea, nonché della mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, dell’obbligo di rinvio pregiudiziale a norma dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.».

Il predetto articolo 23 (poi diventato art. 30) del disegno di legge n.1864 della legge europea 2013-bis intendeva intervenire, correttamente, per risolvere e far archiviare la procedura di infrazione n.2009/2230 avviata dalla Commissione Ue nei confronti dell’Italia per il mancato adeguamento alla sentenza della Corte di giustizia del 24 novembre 2011 in causa C-379/10.

Viceversa, il nuovo Governo Renzi non ha inteso sostenere la corretta applicazione dei principi enunciati dalla Corte di giustizia nella sentenza per inadempimento sulla responsabilità dello Stato italiano (e non del Giudice) per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado in caso di erronea interpretazione di norme di diritto o errata valutazione di fatti e prove, per cui ha consentito alla 2ª Commissione permanente del Senato l’espunzione dell’art.30 (ex art.23) del disegno di legge europea 2013-bis dal testo definitivo, approvato con la legge n.161/2014 in sostanziale concomitanza con la sentenza Mascolo della Corte di giustizia[110].

Per altro verso, in luogo della disposizione del disegno di legge europea 2013-bis che avrebbe correttamente applicato la sentenza della Corte di giustizia del 24 novembre 2011 e fatto archiviare la conseguente procedura di infrazione n.2009/2230 della Commissione, il Governo Renzi ha consentito la modifica ed approvazione da parte della 2ª Commissione permanente del Senato in data 7 novembre 2014 di un testo completamente diverso del DDL S1070 (cioè del testo che era stato ritenuto idoneo a sostituire l’art.30 del disegno di legge europea 2013-bis, provocandone la soppressione dalla legge n.161/2014), poi approvato definitivamente anche dalla Camera e diventato la legge n.18/2015, con la modifica dell’art.2 della legge n.117/1988[111] sulla responsabilità civile dei magistrati per dolo o colpa grave.

Pare evidente a chi scrive che il nuovo testo dell’art.2, co. 3 e 3-bis, della l. n.117/1988, come modificato dalla legge n.18/2015, costruisce una nozione di responsabilità per dolo o colpa grave «in caso di violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea» che pone il Giudice nazionale di fronte alla scelta – che comunque venga esercitata è causa di responsabilità civile e disciplinare nei confronti dello Stato nelle cause in cui parte sostanziale è la stessa amministrazione pubblica, come nella fattispecie di causa – se violare la normativa interna disapplicandola (artt.36, cc.5, 5-ter e 5-quater, d.lgs. n.165/2001) applicando il diritto dell’Unione europea (clausole 4, punto 1, 5, punti 1 e 2, 8, punti 1 e 3, dell’accordo quadro comunitario sul lavoro a tempo determinato), come interpretato dalla Corte di giustizia (sentenza Mascolo, in particolare) e le norme interne di corretto adeguamento alla disciplina europea (art.1, cc.1 e 2, e art.3 d.lgs. n.368/2001), o invece violare il diritto dell’Unione europea applicando le predette norme interne ostative al riconoscimento della tutela già riconosciuta.

Per l’effetto, è estremamente importante per la tenuta democratica dell’ordinamento interno che le Sezioni unite della Cassazione sollevi la questione pregiudiziale innanzi descritta, sui poteri del giudice nazionale e sulla compatibilità con il diritto dell’Unione europea della scellerata legge sulla responsabilità civile dei magistrati (e degli avvocati va aggiunto).

Infatti, ove non c’è giurisdizione nazionale per la tutela dei diritti fondamentali, non vi è neanche democrazia costituzionale e sovranità popolare né in Italia né nell’Unione europea. Come nel caso di specie, salvo che, dopo le dirimenti sentenze “comunitarie” nn.260 e 272 del 2015 della Corte costituzionale sulla riqualificazione dei rapporti di lavoro nel pubblico impiego, nel dialogo con la Corte di giustizia non se ne rimuovano gli effetti della mancanza di tutela e di palese intimidazione della giurisdizione.

Peraltro, la Commissione Ue (DG Occupazione, affari sociali e inclusione) con comunicazione del 27 ottobre 2015 prot.n.9618009 ha precisato ad un lavoratore precario della sanità pubblica che ha proposto denuncia per infrazione quanto segue:

«I servizi della Commissione hanno pertanto aperto una procedura d’infrazione al riferimento NIF 2014/4231 nei confronti dell’Italia per quanto riguarda la prevenzione degli abusi nel rinnovo dei contratti a tempo determinato nel settore pubblico, anche mediante il risarcimento dei danni subiti a causa di tale abuso. La problematica dell’eventuale discriminazione tra personale con contratto a tempo determinato e a tempo indeterminato nel settore pubblico è trattata anch’essa in tale ambito. Non è quindi necessario ampliare l’ambito della procedura di infrazione 2010/2124, che si riferisce alla scuola pubblica, per farvi rientrare tutti i dipendenti pubblici, anche in considerazione del fatto che l’Italia ha adottato di recente un’importante riforma della scuola. Nell’ambito della procedura d’infrazione 2014/4231 è necessario analizzare una grande quantità di informazioni fornite da diversi denuncianti. La Commissione deciderà sui passi opportuni da intraprendere dopo aver concluso tale analisi. Il deferimento alla Corte di giustizia, come nel caso del Lussemburgo e dell’Estonia, sarà preso in considerazione solo se, una volta esperite tutte le fasi della procedura d’infrazione ai sensi dell’articolo 258 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, si ravviseranno ancora difformità tra la normativa nazionale e quella dell’Unione.».

Quindi, dopo la sentenza Mascolo della Corte di giustizia (e nonostante la precisazione al punto 55 della sentenza Mascolo che l’art.5, co.4-bis, d.lgs. n.368/2001 è misura adeguata ed energica e va applicata) la Commissione Ue a fine ottobre 2015 è ben consapevole che non vi sono misure preventive interne idonee ad applicare la clausola 5, n.1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato per tutto il pubblico impiego non scolastico, neanche sotto forma di risarcimento del danno, al punto da essere costretto ad aprire una nuova procedura di infrazione n.2014/4231 per il pubblico impiego non scolastico, distinta dalla procedura di infrazione n.2010/2124 sulla scuola.

In questo quadro neanche le Sezioni unite della Cassazione non è in grado di dare effettività alla tutela “equivalente” (a quella dei dipendenti privati in situazioni analoghe) dei lavoratori pubblici in caso di abuso nella successione dei contratti a tempo determinato, per mancata attuazione (e quindi sostanziale violazione) della clausola 5 dell’accordo quadro recepito dalla direttiva 1999/70/Ce, come interpretata dalla Corte di giustizia in particolare nella sentenza Mascolo, a meno che non disapplichino le norme interne che impediscono la parità di trattamento.

A tal proposito, sul fronte delle decisioni della giurisprudenza di merito e di comportamenti di pubbliche amministrazioni improntati al rispetto degli obblighi Ue e all’applicazione dei principi enunciati dalla Corte di giustizia nella sentenza Mascolo, va segnalata la pregevole sentenza del 6 maggio 2015, n.4197 del Tribunale di Napoli[112], in sede di riassunzione della causa Russo C-63/13 sugli asili comunali dopo la pronuncia della Corte europea.

La decisione partenopea, scontata dopo l’invito della Corte di giustizia al giudice del rinvio al punto 55 della sentenza Mascolo a continuare ad applicare l’art.5, co.4 bis, d.lgs. n.368/2001, acquista un maggior rilievo ove si pensi che la sentenza di riqualificazione dei contratti a tempo determinato successivi della dipendente comunale insegnante presso l’asilo comunale non è stata impugnata dal Comune di Napoli, datore di lavoro pubblico e parte soccombente nel procedimento principale.

Anzi, l’Amministrazione comunale di Napoli ha dato ulteriore seguito alla pronuncia della Corte di giustizia, estendendo sul piano amministrativo a tutto il personale precario degli asili comunali l’indicazione giudiziale di trasformazione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro a termine, trovando sostegno in questo atteggiamento di leale cooperazione con le Istituzioni europee (che lo Stato nazionale continua a non mostrare) anche nelle decisioni del Giudice contabile, che ha assolto i pubblici amministratori locali dal giudizio di responsabilità per danno erariale nell’ipotesi di attuazione di processi di stabilizzazione  del personale precario (cfr. Corte conti, sez. giur. Lombardia, 10 luglio 2013, n.177).

Aderiscono alla descritta giurisprudenza partenopea i giudici nazionali che per primi, coraggiosamente, si erano cimentati nell’applicazione dei principi costituzionali ed europei della stabilità lavorativa anche nel pubblico impiego, come sanzione necessaria in caso di abusivo ricorso ad una successione di contratti a termine per soddisfare esigenze permanenti e carenze strutturali di organico: il Tribunale di Siena[113] e il Tribunale di Trani[114].

Il Tribunale di Siena, in fattispecie di superamento dei 36 mesi di servizio di personale ata (escluso dal piano di stabilizzazione della l. n. 107/2015) è particolarmente (e giustamente) caustico nel contestare l’inutilità degli sforzi della giurisprudenza di merito e di legittimità di quantificare il risarcimento del danno negando la possibilità di riqualificazione dei rapporti a termine nel pubblico impiego[115], perché «gli stessi contrasti mai sopiti e in atto tra i giudici di merito che nell’ambito della Corte di Cassazione sul contenuto del risarcimento del danno nel settore, fanno sì che su un piano di necessaria effettività la misura risarcitoria sia da ritenersi affetta da patologica incertezza tale da escludere una adeguata, “energica” funzione deterrente e sanzionatoria.».

Il Tribunale di Trani risolve, invece, il problema della sanzione effettiva della stabilità lavorativa in caso di abuso nella successione di contratti a termine con superamento dei 36 mesi di servizio utilizzando la stessa giurisprudenza di legittimità (Cass., sentt. nn. 14350/2010, 392/2012 e 4417/2012) che, rispetto alla violazione di norme imperative di legge, conferma il divieto di conversione in contratto a tempo indeterminato.

Secondo il giudice pugliese, condivisibilmente, con l’entrata in vigore dell’art.5, co.4-bis, d.lgs. n.368/2001 la sanzione adeguata della costituzione di un rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze della pubblica amministrazione non è legata a vizi genetici dei contratti a termine, ma alla mera durata del servizio pubblico svolto con mansioni equivalenti.

A questo punto dovremmo porci una domanda: i giudici di merito che hanno riqualificato a tempo indeterminato rapporti di lavoro a termine illegittimi nel pubblico impiego sono “eversivi” rispetto alla legge nazionale, che continua a fissare il divieto assoluto di conversione e a negare ogni tipo di tutela anche risarcitoria?

In particolare, per quanto riguarda la nuova “disciplina” del contratto a tempo determinato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, vanno evidenziate le seguenti “incongruenze” rispetto al sistema eurounitario delle fonti:

  • i contratti a tempo determinato stipulati con il personale docente ed ata per il conferimento delle supplenze (come i contratti a termine del personale sanitario, anche dirigente, del Servizio sanitario nazionale) sono esclusi dal campo di applicazione della nuova disciplina (e quindi da ogni disciplina sul contratto a tempo determinato), ai sensi dell’art.29, co.2, lett.c), d.lgs. n.81/2015, in aperta violazione della sentenza Mascolo della Corte di giustizia;
  • continua ad applicarsi a tutti i dipendenti a tempo determinato delle pubbliche amministrazioni l’art.36 del d.lgs. n.165/2001 (art.29, co.4, d.lgs. n.81/2015), che però è svuotato del suo contenuto regolativo dal momento che il d.lgs. n.368/2001, richiamato espressamente nel co.2 e nel co.5 ter del predetto art.36, è stato soppresso dall’art.55, co.1, lett.b), del d.lgs. n.81/2015, rimanendo così operativa solo la disposizione sulla ampia legittimazione all’uso dei contratti a tempo determinato per esigenze temporanee o eccezionali (art.36, co.2, d.lgs. n.165/2001) e la mancanza di qualsiasi sanzione effettiva in caso di abuso nella successione contrattuale (art.36, co.5, 5-ter e 5-quater, d.lgs. n.165/2001).

E se la sentenza n.260/2015 della Corte costituzionale con la riqualificazione dei precari pubblici delle Fondazioni lirico-sinfoniche sembrerebbe “salvare” dal giudizio di responsabilità civile i magistrati dei Tribunali di Napoli, Siena, Trani e Locri che hanno, in sostanza, disapplicato le norme interne per applicare i principi costituzionali ed europei di tutela dei lavoratori in caso di abusivo utilizzo dei contratti a tempo determinato, dovrebbe andare incontro ad un giudizio di responsabilità civile il Collegio che ha deciso la sentenza n.24808/2015 della Cassazione che ha negato la conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato “irregolare” per violazione dell’art.1, co.2, d.lgs. n.368/2001 dell’operaio forestale della Regione Sardegna, richiamando (correttamente) una giurisprudenza costituzionale che però è cambiata radicalmente con le sentenze “gemelle” nn.260 e 272 del 2015?

Ovviamente no, una situazione paradossale di questo genere non può essere tollerata, seppure tale scenario sia in concreto ipotizzabile alla luce delle scellerate scelte del legislatore del Porcellum.

Una recentissima decisione della Corte di giustizia con la sentenza Ferreira da Silva e Brito[116] ci aiuta a comprendere il rischio di caos giudiziario in cui si rischierebbe di cadere (e che occorre assolutamente prevenire), se la soluzione del precariato pubblico non dovesse maturare nel senso della stabilità lavorativa.

La Corte europea nella sentenza Ferreira da Silva e Brito si è pronunciata su una fattispecie di trasferimento di azienda nel settore dei trasporti aerei (che presenta molte similitudini con la vicenda del trasferimento di azienda Alitalia/Cai/Alitalia) per presunta violazione del diritto dell’Unione imputabile a un giudice nazionale avverso le cui decisioni non è possibile proporre un ricorso di diritto interno, nel caso di specie il Supremo Tribunal de Justiça (Corte suprema portoghese).

I lavoratori del procedimento principale hanno proposto davanti al Tribunale civile ricorso per responsabilità civile extracontrattuale contro lo Stato portoghese, chiedendo che quest’ultimo sia condannato al risarcimento di determinati danni patrimoniali subiti per la manifesta violazione del diritto dell’Unione europea (direttiva 2001/23/Ce) che sarebbe stata commessa nei loro confronti dal Supremo Tribunal de Justiça con la sentenza del 25 febbraio 2009 (che aveva rigettato la domanda giudiziale dei lavoratori sul presupposto che non si trattava di trasferimento di azienda e, che, quindi, il licenziamento collettivo intimato dal datore di lavoro era legittimo pur a fronte di una cessione di parte dell’azienda e del personale alla società controllante), in quanto la Cassazione portoghese avrebbe interpretato erroneamente la nozione di «trasferimento di uno stabilimento», di cui alla direttiva 2001/23, e in quanto tale giudice non avrebbe adempiuto all’obbligo di sottoporre alla Corte di giustizia le questioni pregiudiziali di diritto dell’Unione pertinenti, ritenendo invece che la Corte di giustizia si fosse già espressa chiaramente con la propria giurisprudenza nel senso di escludere che la fattispecie di causa rientrasse nel campo di applicazione della direttiva comunitaria sul trasferimento di azienda ai fini della tutela effettiva e del mantenimento dei posti di lavoro nel passaggio dall’azienda cedente all’impresa subentrante[117].

Si tratta, in buona sostanza, dello stesso errore di interpretazione della giurisprudenza Ue e di mancato assolvimento all’obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza commesso dalla Cassazione nella sentenza n.27481/2014 sul “danno comunitario”, in cui la Corte di cassazione ha rigettato l’istanza di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art.267 TUEF presentata dal lavoratore ricorrente (dipendente precario della Regione autonoma Valle d’Aosta che aveva maturato più di 36 mesi di servizio anche non continuativi) sull’erroneo presupposto che non sarebbe applicabile la sentenza Mascolo della Corte di giustizia (che invece ha delibato anche su questione pregiudiziale di precariato pubblico locale, come nella causa Russo C-63/13), in quanto «la vicenda che ha dato origine al presente giudizio non ha alcuna attinenza con quella dei lavoratori precari della scuola, la cui situazione è del tutto peculiare.».

Ebbene, la Corte di giustizia nella sentenza Ferreira da Silva e Brito, dopo aver ricordato che l’autorità del giudicato non preclude la possibilità per chi ritenga di essere stato danneggiato dal giudice di ultima istanza di chiedere l’autonoma e diversa azione di risarcimento dei danni nei confronti dello Stato per manifesta violazione del diritto comunitario commessa dalla Cassazione, secondo l’impostazione della sentenza Francovich[118] della Corte di giustizia, conclude, innanzitutto, censurando l’interpretazione proposta dalla sentenza della Cassazione portoghese e riconoscendo che la nozione di «trasferimento di uno stabilimento» comprende una situazione nella quale un’impresa attiva nel mercato dei voli charter è liquidata dal suo azionista di maggioranza, che è a sua volta impresa di trasporto aereo, e nella quale, successivamente, quest’ultima subentra all’impresa liquidata riassumendone i contratti di locazione di aerei e i contratti di voli charters in vigore, svolge l’attività precedentemente svolta dall’impresa liquidata, riassume alcuni lavoratori fino a quel momento distaccati presso tale impresa, collocandoli in funzioni identiche a quelle svolte in precedenza e riprende piccole apparecchiature di detta impresa.

In secondo luogo, la Corte di Lussemburgo stigmatizza il comportamento del giudice di ultima istanza portoghese che non ha sollevato le questioni pregiudiziali che erano state richieste dai lavoratori (che erano fondate) e sottolinea che l’art. 267, c.3, TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice avverso le cui decisioni non sono esperibili ricorsi giurisdizionali di diritto interno è tenuto a sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea una domanda di pronuncia pregiudiziale vertente sull’interpretazione della nozione di «trasferimento di uno stabilimento» di cui all’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2001/23, in circostanze quali quelle del procedimento principale, contraddistinte al contempo da decisioni divergenti di giudici di grado inferiore quanto all’interpretazione di tale nozione e da ricorrenti difficoltà d’interpretazione della medesima nei vari Stati membri.

In conclusione, pare a chi scrive che, dopo la sentenza Mascolo della Corte di giustizia e le sentenze nn.260 e 272 del 2015 della Corte costituzionale, la giurisdizione non possa più permettersi di dare risposte inadeguate alle istanze di riconoscimento dell’unica tutela effettiva in caso di abuso nella successione dei contratti a tempo determinato dei dipendenti pubblici, che è e rimane quella della stabilità lavorativa “equivalente” a quella dei dipendenti privati.

In tal senso, si auspica che le Sezioni unite della Cassazione vogliano proseguire nel dialogo con la Corte di giustizia sulla maggior tutela dei diritti fondamentali e consentire, con l’ausilio della Corte europea, la rimozione degli ostacoli che impediscono alla giurisdizione di dare effettività ai diritti tutelati dalla Costituzione, dall’ordinamento Ue e, per quanto, consta, anche dai principi civilistici e di civiltà giuridica interni ancora in vigore.

[1] Pres. Criscuolo, Est. Sciarra. La questione di costituzionalità sollevata dalla Corte di appello di Firenze risulta essere stata esaminata nella camera di consiglio del 10 giugno 2015, presieduta dal Vice Presidente della Corte costituzionale, la prof.ssa Cartabia, per l’assenza del Presidente Criscuolo, risultante anche da altri provvedimenti adottati dalla Consulta all’esito della stessa camera di consiglio. Tuttavia, la decisione è stata adottata soltanto il 1° dicembre 2015, in concomitanza con la discussione davanti alle Sezioni unite della Cassazione sulla sanzione adeguata in caso di abusivo utilizzo dei contratti a tempo determinato nel pubblico impiego, ed è stata sottoscritta eccezionalmente dallo stesso Presidente Criscuolo, oltre che dall’Estensore Sciarra.

[2] Corte giust., III Sez., sent. 26 novembre 2014 in cause riunite C-22/13, C-61/13, C-62/13, C-63/13 e C-418/13 Mascolo, Forni, Racca, Russo e Napolitano ed altri c. Miur e Comune di Napoli; su cui cfr. M. Aimo, I precari della scuola tra vincoli europei e mancanze del legislatore domestico, 2015, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT; L. Calafà, Il dialogo multilevel tra le Corti e la “dialettica prevalente”: le supplenze scolastiche al vaglio della Corte di giustizia, in Riv.it.dir.lav., II, 2015, 336 ss.; P. Coppola, Breve commento alla sentenza Mascolo della Corte di giustizia, 2015, in europeanrights.eu; M. De Luca, Un gran arrêt della Corte di giustizia dell’Unione europea sul nostro precariato scolastico statale: il contrasto con il diritto dell’Unione, che ne risulta, non comporta l’espunzione dal nostro ordinamento, né la non applicazione della normativa interna confliggente (prime note in attesa dei seguiti), in Lav.pp.aa., 2014, 499 ss.; V. De Michele, L’interpretazione “autentica” della sentenza Mascolo-Fiamingo della Corte di giustizia UE sulla tutela “energica” del lavoro flessibile alle dipendenze di datori di lavoro pubblici e privati, in europeanrights.eu, 10 gennaio 2015; id, La sentenza Mascolo della Corte di giustizia sul precariato pubblico e i controversi effetti sull’ordinamento interno, ibidem, 11 novembre 2015; F. Ghera, I precari della scuola tra Corte di giustizia, Corte costituzionale e Giudici comuni, in Giur.cost., 2015, 158 ss.; S. Galleano, La sentenza Mascolo sulla scuola rischia di avere effetti clamorosi per il precariato degli altri enti pubblici, in europeanrights.eu, 8 gennaio 2015; R. Irmici, La sentenza Mascolo della Corte di giustizia dell’Unione europea e lo strano caso del giudice del rinvio pregiudiziale che immette ma non converte, in Nov.dir.amm., 2015, 2, 177 ss.; L. Menghini, Sistema delle supplenze e parziale contrasto con l’accordo europeo: ora cosa succederà?, in Riv.it.dir.lav., 2015, II, 343 ss.; M. Miscione, Il Tribunale di Napoli immette in ruolo i precari della Pubblica Amministrazione, in Quot.giur., 5 gennaio 2015, n. 5; R. Nunin, «Tanto tuonò che piovve»: la sentenza “Mascolo” sull’abuso del lavoro a termine nel pubblico impiego, su Lav.giur., 2015, 146 ss.; A.M. Perrino, La Corte di giustizia come panacea dei precari?, in Foro it., 2014, II, 93 ss.; V. Pinto, Il reclutamento scolastico tra abuso dei rapporti a termine e riforme organizzative, in Lav.pubb.amm., 2015, 915 ss.; G. Santoro Passarelli, Contratto a termine e temporaneità delle esigenze sottostanti, in Arg.dir.lav., 2015, 189 ss.; N. Zampieri, Sulle conseguenze nel lavoro pubblico della violazione delle disposizioni contenute nel d.lgs. n. 368/2001, in materia di assunzioni a tempo determinato, dopo le pronunce Affatato, Carratù, Papalia e Mascolo della CGUE, in Ris.um., 2015,  2, 213 ss.

[3] Corte giust., III Sez., sent. 26 febbraio 2015 in causa C-238/14 Commissione contro Granducato di Lussemburgo.

[4] Così indicata dalla Corte costituzionale nella sentenza n.260/2015 alla fine del punto 4: «Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 30 luglio 2013, n. 18263, e 26 maggio 2011, n. 11573, che inaugurano un orientamento conforme, riferito alla norma interpretata ed espresso, fra le molte, pur dopo l’entrata in vigore della norma interpretativa, da Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 19 maggio 2014, n. 10924, 12 maggio 2014, n. 10217, 27 marzo 2014, n. 7243, 20 marzo 2014, n. 6547, 12 marzo 2014, n. 5748».

[5] Pres. Criscuolo, Est. Sciarra.

[6] In precedenza la Corte costituzionale si era pronunciata con le sentenze nn.74/2008 (Pres. Bile, Est. Maddalena), 1/2011 (Pres. De Siervo, Est. Maddalena), 227/2014 (Pres. Cassese, Est. Criscuolo), dichiarando la legittimità costituzionale dell’art. 1, co.774-776, l. n.296/2006, con i quali il legislatore ha disposto che l’estensione della disciplina del trattamento pensionistico a favore dei superstiti di assicurato e pensionato vigente nell’ambito del regime dell’assicurazione generale obbligatoria a tutte le forme esclusive e sostitutive di detto regime prevista dall’art. 1, co. 42, l. n. 335/1995, si interpreta nel senso che per le pensioni di reversibilità sorte a decorrere dall’entrata in vigore della l. n.335/1995, indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta, l’indennità integrativa speciale già in godimento da parte del dante causa, parte integrante del complessivo trattamento pensionistico percepito, è attribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilità, stabilendo nel contempo che è abrogato l’art. 15, co. 5, l. n. 724/1994.

[7] Pres. Roselli, Rel. Arienzo.

[8] Pres. Bile, Est. Mazzella. La questione di legittimità costituzionale dell’art.1, co. 777, l.n. 296/2006 era stata sollevata dalla Cassazione con ordinanza del 5 marzo 2007 n.507/2007 Reg.ord., in riferimento agli artt. 3, co.1, 35, co. 4, e 38, co. 2, Cost.

[9] Cfr. V. De Michele, La tutela delle pensioni agricole e l’incostituzionalità interna e UE delle norme retroattive pro-Inps, su Lav.giur., 2011, 6, 563.

[10] Pres. Bile, Est. Quaranta.

[11] Pres. Amirante, Est. Tesauro.

[12] Cfr. V. De Michele, Dal libro bianco di Biagi alle sentenze Agrati-Scattolon delle Corti sovranazionali: il rilancio della casa comune europea parte dalla difesa sostenibile del welfare, in Atti del Convegno Nazionale Centro studi D. Napoletano, Nuovi assetti delle fonti del diritto del lavoro, 334-347, CASPUR-CIBER Publishing, in caspur-ciberpublishing.it. La sentenza Agrati è stata confermata dalla sentenza De Rosa ed altri dell’11 dicembre 2012 della Corte Edu.

[13] Pres. Quaranta, Est. Mazzella.

[14] Pres. Flick, Est. Mazzella. La questione di legittimità costituzionale dell’art.1, co. 55, l.n. 243/2004 era stata sollevata dalla Cassazione con due ordinanze del 12 ottobre 2007 nn. 62-63/2007 Reg.ord., in riferimento agli artt. 3, 102 e 111 Cost.

[15] Cfr. V. De Michele, La vicenda del personale Ata dopo le superiori giurisdizioni europee e nazionali viene decisa (infine?) dal Tribunale di Treviso, 2012, 3, 238.

[16] Su cui cfr. L. Menghini, Dialogo e contrasti tra le Corti europee e nazionali: le vicende del personale ATA non sono ancora terminate, 2014, 5, 455-465; De Michele, Nuovamente alla Consulta il passaggio del personale ATA dagli Enti locali allo Stato, su Lav.giur., 2008, 11, 1128-1140; ibidem, La vicenda del personale Ata dopo le superiori giurisdizioni europee e nazionali viene decisa (infine?) dal Tribunale di Treviso, cit., 223-244.

[17] Corte giust., Gr. Sez., sent. 6 settembre 2011 in causa C-108/10 Scattolon c. MIUR.

[18] La Corte europea dei diritti dell’uomo, II Sezione, con la sentenza del 14 gennaio 2014 nella causa “Montalto e a. v. Italy” sul ricorso n.38180/08 (più altri 16 ricorsi riuniti) è intervenuta, ancora una volta, sulla norma interpretativa retroattiva dell’art.1, comma 218, della legge finanziaria n.266/2005. Con la sentenza Montalto la Cedu ha rafforzato quanto già enunciato nella precedente sentenza Agrati sulla violazione dell’art.6 della Convenzione, rigettando tutti gli argomenti del Governo italiano. Secondo la Corte europea non vi era alcuna necessità di una norma interpretativa che andasse a ridurre il contenzioso, che anzi è stato alimentato, non vi erano ragioni imperiose di carattere generale per giustificare a distanza di oltre cinque anni la modifica dell’art.8 della legge n.124/1999 che riconosceva la piena anzianità di servizio e professionale al personale ata transeunte, perché non vi era alcun vide juridique, nessun vuoto normativo da colmare, ma solo gli interessi “egoistici” dello Stato da tutelare.

[19] Rel. Tizzano. Il parere è stato sottoscritto da 25 dei 28 giudici della Corte di giustizia.

[20] V. tra le più significative le sentenze della Cass., sez. lav., n. 3224 del 17 febbraio 2005, n. 3356 del 18 febbraio 2005, n. 7747 del 15 marzo 2005, n. 3356 del 18 febbraio 2005, n. 4722 del 4 marzo 2005, n. 7747 del 14 aprile 2005, n. 18652 – 18657 del 23 settembre 2005, e n. 18829 del 27 settembre 2005.

[21] Pres. Quaranta, Est. Morelli. La 2ª questione di legittimità costituzionale dell’art.1, co. 777, l.n. 296/2006 era stata sollevata sempre dalla Cassazione con ordinanza del 15 novembre 2011 n.10/2012 Reg.ord., in riferimento all’art.117, comma 1, Cost. e al parametro interposto dell’art. 6 della Cedu, come interpretato in subiecta materia dalla sentenza Maggio della Corte di Strasburgo.

[22] Pres. Coletti De Cesare, Est. Bronzini.

[23] Pres. Quaranta, Est. Criscuolo.

[24] Pres. Quaranta, Est. Criscuolo. Sulla questione delle pensioni agricole prima della sentenza n.257/2011 della Corte costituzionale, cfr. V. De Michele, La tutela delle pensioni agricole e l’incostituzionalità interna e UE delle norme retroattive pro-Inps, su Lav.giur., 2011, 560-570.

[25] Pres. Quaranta, Est. Mazzella.

[26] Pres. Quaranta, Est. Criscuolo.

[27] Pres. Silvestri, Est. Criscuolo.

[28] Pres. Criscuolo, Est. Sciarra.

[29] Pres. Gallo, Est. Cartabia.

[30] Pres. Silvestri, Est. Tesauro.

[31] Pres. Quaranta, Est. Criscuolo.

[32] Cfr. V. De Michele, La vicenda del personale Ata dopo le superiori giurisdizioni europee e nazionali viene decisa (infine?) dal Tribunale di Treviso, cit., 240.

[33] Rimando alle riflessioni su Contratto a termine e precariato, maggio 2009, Milano, 294, che furono condivise dall’Ufficio del Massimario della Cassazione, Est. F.Buffa, nella relazione n.2 del 12 gennaio 2011 su «Problematiche interpretative dell’art. 32, commi 5-7, della legge n. 183/2010 alla luce della giurisprudenza comunitaria, CEDU, costituzionale e di legittimità», 81.

[34] Pres. Vidiri, Est. Napoletano.

[35] Cfr. Ufficio del Massimario della Cassazione, relazione tematica n.133 del 13 ottobre 2014 su “Le questioni ancora aperte nei rapporti tra le Corti Supreme nazionali e le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo”, Est. I.Ambrosi.

[36] Su cui si rimanda a V. De Michele, Diritto comunitario e diritto nazionale a confronto sulla flessibilità in entrata nelle modifiche introdotte dalla legge 78/2014, in F.Carinci e G.Zilio Grandi (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi – Atto I – Commento al d.l. 20 marzo 2014, n. 34 coordinato con la legge di conversione, in Adapt Labour Studies e-book series, University press, Modena, 29 ss.

[37] Cfr. V. De Michele, Il d.lgs. n. 81/2015 e la (in)compatibilità con il diritto dell’Unione europea, in E.Ghera e D.Garofalo (a cura di), Contratti di lavoro, mansioni e misure di conciliazione vita-lavoro nel Jobs Act 2, Bari, 2015, 65.

[38] Così dispone l’art.29, co.3, d.lgs. n.81/2015: «3. Al personale artistico e tecnico delle fondazioni di produzione musicale di cui al decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367, non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 19, commi da 1 a 3, e 21».

[39] L’art.3, co.4 e 5, della l. n. 426/1977 così dispone: «Sono, altresì, vietati i rinnovi dei rapporti di lavoro che, in base a disposizioni legislative o contrattuali, comporterebbero la trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. Le assunzioni effettuate in violazione del divieto di cui al precedente comma sono nulle di diritto, ferma la responsabilità personale di chi le ha disposte.»

[40] Cass., sez.lav., Pres. Mattone, Est. Nobile, sent. 21 maggio 2008, n.12985, su Lav.giur., 2008, 903, con nota  di V. De Michele, L’interpretazione sistematica della Cassazione sul contratto a termine e la reazione caotica del legislatore. In dottrina, v. A.M. Perrino, Il paradosso del contratto a termine: l’enfasi dei principi e la «Realpolitik» delle regole, su Foro it., 2008, 3576; A. Olivieri, La Cassazione e il rasoio di Ockham quale strumento intervento del contratto a tempo determinato: a parità di fattori la spiegazione più semplice tende ad essere quella esatta, in Riv.it.dir.lav., 2008, 891; critico A. Vallebona, Sforzi interpretativi per una distribuzione inefficiente dei posti di lavoro stabile, su Mass. giur. lav., 2008, 643.

[41] Cfr. Cass, sez. lav., 26 maggio 2011, n. 11573; 30 luglio 2013, n. 18263; 12 marzo 2014, n. 5748 e numerose altre conformi, tutte citate nella sentenza della Corte costituzionale n.260/2015.

[42] Cass., SS.UU., Pres. Carbone, Est. Proto, ord. 8 febbraio 2006, n.2637.

[43] Pres. De Siervo, Est. Mazzella.

[44] Pres. Stile, Est. Doronzo.

[45] Così la Corte costituzionale al punto 4.1 della sentenza n.260/2015 interpreta l’art.3, co.6, 3° per., d.l. n.64/2010: « Quanto al primo profilo, il legislatore, pur confermando la necessità di un concreto riferimento dei contratti di scrittura artistica a specifiche attività artistiche espressamente programmate (art. 3, comma 6, secondo periodo), delinea una disciplina derogatoria per i contratti a tempo determinato delle fondazioni lirico-sinfoniche e le dispensa dall’osservare le disposizioni dell’art. 1, commi 01 e 2, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), che individuano nel contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato la forma comune di rapporto di lavoro e sanciscono per l’apposizione del termine, a pena di inefficacia, l’obbligo della forma scritta (art. 3, comma 6, terzo periodo)» e, aggiungerei, della specificazione delle ragioni di cui al comma 1 dell’art.1 del d.lgs. n.368/2001.

[46] L’art. 11, co. 19, d.l. n. 91/2013, non convertito dalla l. n. 112/2013, così disponeva: «Il Decreto Legge 30 aprile 2010, articolo 3, comma 6, primo periodo, convertito con modificazioni dalla Legge n. 100 del 2010, si interpreta nel senso che alle fondazioni, sin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, non si applicano le disposizioni di legge che prevedono la stabilizzazione del rapporto di lavoro come conseguenza della violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine, di proroga o di rinnovi dei medesimi.».

[47] Corte giust. CE, gr.sez., sent.4 luglio 2006, Konstantinos Adeneler et al. c. Ellinikos Organismos Galaktos (ELOG) in causa C-212/04.

[48] Corte cost. 14 luglio 2009, n. 214, in Lav.giur., 2009, 1005 ss., con commento di V. De Michele, La sentenza Houdinì della Corte Costituzionale sul contratto a tempo determinato; in Foro it., 2010, 1, 53 ss., con puntuali argomentazioni critiche di A. M. Perrino. V. in dottrina, L. Menghini, Direttive sociali e clausole di non regresso: il variabile del diritto comunitario nelle decisioni delle Corti superiori, in Riv. giur. lav., 2009, 345 ss.; in Mass. giur. lav., 2009, 653, con nota redazionale di A. Vallebona; T. Vettor, Il lavoro a termine nella sentenza della Corte Costituzionale n. 214 del 2009, in Arg. dir. lav., 2009, 4-5, 1041 ss.; S. Galleano, Corte Costituzionale 214/2009: luci (qualcuna) e ombre (molte) di una sentenza fatta male, in www.studiogalleano.it; V. Angiolini-A. Andreoni, Lavoro a termine, processi pendenti e Corte Costituzionale. A proposito della sentenza n. 214/09, in www.cgil.it; S. Vacirca, La sentenza n. 214 del 2009 sul contratto a termine: i limiti alla discrezionalità legislativa e l’interpretazione necessaria di norma elastica, in Riv. crit. lav., 2009, 637 ss.; F. Marinelli, La Corte Costituzionale si pronuncia sulla norma “antiprecari”. Brevi note a margine di una sentenza in equilibrio fra detto e non detto, in Riv. it. dir. lav., 2009, 4, 880 ss.

[49] Corte giust. CE, gr.sez., sent.4 luglio 2006, Konstantinos Adeneler et al. c. Ellinikos Organismos Galaktos (ELOG) in causa C-212/04.

[50] Pres. Est. Bronzini.

[51] Questi i principi di diritto enunciati dalla Cassazione nella sentenza n.5748/2014, testualmente richiamati nell’ordinanza di rinvio della Corte di appello di Firenze: «successivamente alla trasformazione (a partire, dunque, dal 23 maggio 1998), e fino all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 368/2001, ai contratti  di  lavoro  a  termine  stipulati con le fondazioni lirico-sinfoniche si applica la disciplina prevista  dalla legge 18 aprile 1962, n. 230, con  l’unica esclusione costituita dell’art. 2 legge cit., relativa alla proroghe, alla prosecuzione  ed ai  rinnovi  dei  contratti  a  tempo  determinato, come stabilito dall’art. 22 del decreto legislativo 29 giugno  1996, n.367. Dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, ai contratti di  lavoro a termine stipulati dal personale delle fondazioni lirico-sinfoniche previste dal decreto legislativo del 29 giugno 1996, n. 367, si applicano le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 368/2001, con le uniche esclusioni costituite dall’art.4, relativo alle proroghe, e dall’art.5, relativo alle prosecuzioni ed ai rinnovi, come stabilito dall’art.11, comma 4°, decreto legislativo n. 368/2001».

[52] Così ordinanza n. 298 del 2011 e in termini sentenza n. 111/2012.

[53] Pres. Rovelli, Rel. Amoroso.

[54] Cass., sez. lav., ord., 4 agosto 2015, n. 16363, Pres. Macioce, Est. Blasutto.

[55] Est. Basilico, giudice del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.

[56] Cfr. Relazione tematica dell’Ufficio del Massimario della Cassazione n.137 del 21 ottobre 2015, Est. I. Fedele, sulla sanzione adeguata in caso di abuso nella successione di contratti a tempo determinato nel pubblico impiego come questione di massima di particolare importanza, discussa davanti alle Sezioni unite all’udienza del 1° dicembre 2015 (ricorsi R.G. nn. 27025/2009, 27029/2009, 6594/2012, 9292/2012, 19337/2013, 8244/2014, 15261/2014).

[57] Sull’ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale, cfr. U. Adamo, Nel dialogo con la Corte di giustizia la Corte costituzionale è un organo giurisdizionale nazionale anche nel giudizio incidentale. Note a caldo sull’ord. n. 207/2013, in www.forumcostituzionale.it, 24 luglio 2013; V. De Michele, L’interpretazione comunitaria della Corte costituzionale sulla “nuova” disciplina del contratto a termine, su Lav.giur., 2013, n.8-9, p.813 ss.; in senso conforme L. Menghini, Riprende il dialogo tra le Corti superiori: contratto a termine e leggi retroattive, su Riv.giur.lav., 2013, 4, 425 ss.; B. Guastaferro, La Corte costituzionale ed il primo rinvio pregiudiziale in un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale: riflessioni sull’ordinanza n. 207 del 2013, 23 ottobre 2013, su www.forumcostituzionale.it.

[58] Pres. Vidiri, Est. Napoletano.

[59] Cfr. relazione tematica dell’Ufficio del Massimario della Cassazione n.137/2015, p.30.

[60] Sulla legittimazione passiva dello stesso datore di lavoro pubblico, oltre che dello Stato, per quanto riguarda l’azione di risarcimento del danno per mancato recepimento delle direttive Ue v., in particolare, la sentenza Impact della Grande Sezione della Corte di giustizia del 15 aprile 2008 nella causa C-286/06.

[61] Cfr. L. Calafà, Il dialogo multilevel tra corti e la “dialettica prevalente”: le supplenze scolastiche al vaglio della Corte di giustizia, cit., 336; nonchè M. Aimo, Presupposti, confini ed effetti della sentenza Mascolo sul precariato scolastico, in Riv.giur.lav., 2015, 177 ss.

[62] Corte giust., VIII sez., ord. 1 ottobre 2010, causa C-3/10 Affatato c. ASL Cosenza.

[63] Avv.ti A. Notarianni e R. Garofalo.

[64] Ordinanze riunite Fiamingo C-362/13, Zappalà C-363/13 e Rotondo ed altri C-407/13.

[65] Il Convegno del 13 novembre 2015 sul tema “La primauté nell’Unione allargata” è stato inserito nell’ambito di un Workshop di Diritto dell’Unione europea e internazionale tenutosi a Roma presso la Cassazione il 12-13 novembre 2015, organizzato da Movimento per la Giustizia e Magistratura Democratica.

[66] Cass., VI sez.L, Pres. Curzio, Est. Garri, sent. 10 febbraio 2015, n.2494.

[67] Pres. Silvestri, Est. Criscuolo.

[68] Così dispone l’art.32, co.1-bis, l. n.183/2010: «In sede di prima applicazione, le disposizioni di cui alla Legge 15 luglio 1966, n. 604, articolo 6, comma 1, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011.».

[69] Pres. Cassese, Est. Napolitano.

[70] Nella sentenza n.155/2014 anche l’Avvocatura dello Stato aveva preso posizione per l’inammissibilità della questione: «In punto di rilevanza, la difesa dello Stato evidenzia come parte della giurisprudenza e della dottrina ritenga che il comma 1-bis dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 (comma introdotto dall’art. 1, comma 1, della legge n. 10 del 2011, che ha convertito il d.l. n. 225 del 2010) abbia durata retroattiva. Ne conseguirebbe che il differimento al 31 dicembre 2011 del termine di 60 giorni per l’impugnazione del licenziamento, in detto comma 1-bis, varrebbe anche per tutte le fattispecie assoggettate ex novo all’onere di impugnazione di cui all’art. 32, per le quali alla data di entrata in vigore dello stesso comma 1-bis, ovvero al 26 febbraio 2011, il termine d’impugnazione introdotto dall’art. 32 era già spirato. Aderendo a tale opzione interpretativa del citato comma 1-bis, la questione risulterebbe irrilevante, in quanto alla fattispecie dedotta in giudizio l’onere d’impugnazione non si applicherebbe.».

[71] L’orientamento è stato confermato dalla Suprema Corte con numerose ordinanze, sempre della VI sez.L.: nn.14899-14902-15480-18591-18592-25100-25101-25103/2015.

[72] Corte app. Bari, Pres. De Cillis, Est. Rubino, sent. 9 ottobre 2015,  n.2275.

[73] V. per tutte, Cass., sez. lav., Pres. Stile, Est. Manna, 8 gennaio 2015, n. 62, commentata da Giansanti, 2015, 240 ss.

[74] Corte giust. Ue, III sez., sent. 3 luglio 2014, in cause riunite C-362/13, C-363/13 e C-407/13 Fiamingo ed altri c. Rete ferroviaria italiana, in Riv.it.dir.lav., 2015, II, 291 ss., con nota di E.Ales, La nuova disciplina del contratto a termine è conforme al diritto comunitario? Una risposta (nel complesso) positiva. In dottrina v. L. Menghini, Diritto speciale nautico, diritto comune e diritto eurounitario: le loro interferenze nelle pronunce della Cassazione e della Corte di giustizia Ue sul contratto di arruolamento a tempo determinato, in europeanrights.eu, gennaio 2015; V. De Michele, Per grazia ricevuta ecco il Jobs act n. 1: la precarietà lavorativa diventa regola sociale… a termine, in Lav.prev.oggi, 2014, 372 ss.; A.Vimercati, Lavoro marittimo, se tra due part time non passano 60 giorni il rapporto diventa a tempo indeterminato, in Guid.dir., 1° settembre 2014; L. Giansanti, Direttiva n. 99/70 e acausalità del contratto a termine: la promozione (con riserva) della legge italiana sul lavoro marittimo e il ruolo della frode alla legge (Corte di Giustizia, 3 luglio 2014, C-362/13, C-363/13, C-407/13, Sezione Terza – Cassazione, 8 gennaio 2015, n. 62), in Riv.giur.lav., 2015, II, 239 ss.

[75] L’art. 1344 c.c. è stato egregiamente utilizzato dalla Cassazione nella sentenza n.62/2015 (ed altre dello stesso tenore) in sede di riassunzione della cause sul lavoro marittimo dopo i clamorosi errori commessi dalla Corte di giustizia nella sentenza Fiamingo per tentare di aiutare il legislatore renziano a riordinare la materia del contratto a tempo determinato ed evitare che il sistema clientelare delle centinaia di migliaia di contratti a termine di durata trimestrale («max 78 giorni» è la formula di durata massima lavorativa utilizzata da Rete ferroviaria italiana per i propri dipendenti precari marittimi) stipulati dalle grandi imprese pubbliche (in particolare, Poste italiane, ma anche Rai, Trenitalia, ecc.) – esonerate dal versamento dell’obbligo contributivo per la disoccupazione involontaria posto a carico delle imprese private per la c.d. indennità con requisiti ridotti (cioè con un minimo di 78 giorni di servizio nell’anno precedente quello della domanda) – potessero continuare ad alimentare un contenzioso mostruoso di impugnativa di ogni singolo rapporto trimestrale privo di ragioni oggettive. Sulla questione si rimanda a V.De Michele, Per grazia ricevuta…., op.cit., 380-385.

[76] L’art.117, co.1, Cost. così dispone: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.»

[77] Per un’interpretazione totalmente adesiva alla lettura comunitaria orientata della Corte costituzionale della nuova disciplina sul lavoro a tempo determinato introdotta dal d.lgs. n.81/2015, si rimanda a V. De Michele, Il d.lgs. n. 81/2015 e la (in)compatibilità con il diritto dell’Unione europea, op.cit., 25-83.

[78] Corte giust. Ue, III sez., sent. 12 dicembre 2013, causa C-361/12 Carratù contro Poste italiane. Sulla sentenza Carratù cfr. V. De Michele, La sentenza “integrata” Carratù-Papalia della Corte di giustizia sulla tutela effettiva dei lavoratori pubblici precari, su Lav.giur., 2014, 241 ss.; P. Coppola, Brevi note sul Decreto legge 20 marzo 2014, n. 34: “Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese”, in Lav.prev.oggi, 2014, 145 ss.; S.L. Gentile, Corte di giustizia e contratto a termine: la legittimità dell’indennità forfettizzata e la natura di ente pubblico delle società partecipate dallo Stato, in Riv.it.dir.lav., 2014, II, 479 ss.; S. Guadagno, Evoluzione dei regimi risarcitori per il lavoro a termine, parità di trattamento e non regresso, in Arg.dir.lav., 2014, 682 ss.; L. Menghini, Dialogo e contrasti tra le Corti europee e nazionali: le vicende del personale ATA non sono ancora terminate, su Lav.giur., 2014, 463-465; R.Nunin, Impiego pubblico, violazione delle regole sul contratto a termine e adeguatezza delle sanzioni: spunti recenti dalla Corte di giustizia, in Riv.giur.lav., 2014, II, 124 ss..

[79] Il 7° considerando dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato così precisa: «considerando che l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato basata su ragioni oggettive è un modo di prevenire gli abusi».

[80] Corte giust., VIII sez., sent. 13 marzo 2014, causa C-190/13 Antonio Márquez Samohano c. Universitat Pompeu Fabra.

[81] Corte giust., VIII sez., ord. 11 dicembre 2014, causa C-86/14 Marta León Medialdea c. Ayuntamiento de Huétor Vega.

[82] Così viene spiegata la posizione del Governo italiano nella sentenza n.260/2015 della Corte costituzionale: «La difesa dello Stato replica che la disciplina impugnata ha natura interpretativa, in quanto isola una delle varianti di senso (il divieto generale di stabilizzazione dei rapporti irregolari), coerente con la finalità di contenere la spesa pubblica e con le peculiarità di un settore contraddistinto da un’attività stagionale. A dire dell’Avvocatura generale dello Stato, la norma censurata rinviene la sua ragion d’essere nella spiccata impronta pubblicistica delle fondazioni lirico-sinfoniche, sovvenzionate in misura prevalente dallo Stato e dagli enti locali, qualificabili, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 153 del 2011), come organismi nazionali di diritto pubblico. Non si potrebbe istituire, pertanto, alcun raffronto tra i rapporti di lavoro instaurati dalle fondazioni e i rapporti di lavoro che intercorrono con gli imprenditori privati. Inoltre, i ragguardevoli disavanzi di esercizio del settore integrano «razionali e congrue motivazioni di spiccato rilievo pubblicistico», idonee a giustificare l’introduzione di un assoluto divieto di conversione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato.».

[83] Ecco cosa sostiene Poste italiane ai punti 117-122 delle sue difese nella causa Carratù: «117 Una ultima considerazione appare necessaria sotto un profilo di carattere sistematico. 118 L’ordinamento nazionale, relativamente alle conseguenze sanzionatorie derivanti dall’uso illegittimo del contratto a termine, prevede due distinte tecniche di tutela del lavoratore, una valevole per il lavoro privato ed una per quello pubblico. Per i rapporti di lavoro subordinato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione opera l’art. 36 del D.Lgs. 165 del 2001, per il quale la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori con contratto a termine non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ma determina unicamente il diritto del lavoratore a vedersi corrispondere un risarcimento del danno. La diversità di regolamentazione della materia, che ha superato ampiamente il vaglio della Corte costituzionale, trova le sue ragioni sostanziali nella tutela della finanza pubblica, che viene affrancata dal rischio di vedersi depauperata da un inopinato e non preventivamente quantificabile ampliamento dell’organico dei pubblici dipendenti. Detta disciplina è stata avallata da Codesta Ecc.ma Corte in più di una occasione (cfr. Corte Giustizia Europea 7 settembre 2006, cause C-53/04, Marrosu e C-180/04, Vassallo; Corte Giustizia Europea 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler; Corte Giustizia Europea ordinanza 1° ottobre 2010, causa C-3/10, Affatato). 119. Ciò premesso, ove si volesse accogliere la tesi prospettata dal Giudice remittente nel quesito in esame, Poste Italiane S.p.a., quale “organismo statale”, sarebbe destinataria di un trattamento di peggior favore rispetto a quello previsto per le Amministrazioni Pubbliche che, come rilevato, proprio al fine di tutelare il bilancio statale, in caso di utilizzo di contratti a termine illegittimi, non sono tenute alla loro conversione, ma solo ad erogare un risarcimento. 120. Sempre seguendo la tesi del Tribunale remittente si potrebbe allora sostenere che Poste Italiane S.p.a., quale organismo statale, sia tenuta, in caso di uso illegittimo dello strumento del contratto a termine, ad applicare l’art. 36 sopra citato, e, quindi, a non convertire i contratti dichiarati illegittimi limitandosi a risarcire il danno. Sarebbe infatti irrazionale pretendere l’assimilazione della detta Società ad un organismo statale al fine di “ampliare” le conseguenze risarcitorie della illegittimità del termine per assimilarla nel contempo ad una Società privata al fine di onerarla anche della conversione del contratto dichiarato illegittimo. 121. Inoltre, la tesi sostenuta dal Tribunale remittente, secondo cui l’art. 32 del Collegato Lavoro deve ritenersi non conforme alla normativa comunitaria perché avente un effetto vantaggioso sulla finanza pubblica, contrasterebbe irrimediabilmente con il dettato dell’art. 36 citato, che, come detto, ha la – legittima – finalità di impedire che il bilancio statale venga eccessivamente gravato da un imprevedibile ampliamento dell’organico. 122. Quanto esposto evidenzia lo stravolgimento di ordine sistemico che l’eventuale accoglimento del settimo quesito formulato dal Giudice remittente comporterebbe nell’ordinamento interno dello Stato membro, così avvalorando l’inconsistenza e l’illogicità della tesi prospettata dal Tribunale di Napoli nell’ordinanza di rimessione.».

[84] Cfr. Corte cost. 27 marzo 2003, n. 89.

[85] Cass, sez.lav., Pres. Amoroso, Est. Ghinoy, sent. 7 dicembre 2015, n.24808.

[86] Trib. Torino, Est. Sanlorenzo, ordinanza del 22 gennaio 2001 n.272/2001 Reg.ord.

[87] Cass., sez.lav., Pres. Roselli, Est. Nobile, sent. 20 ottobre 2015, n.21226.

[88] Nella Rassegna della giurisprudenza civile del gennaio 2015 l’Ufficio del Massimario della Cassazione ha condivisibilmente segnalato, anche in relazione all’entrata in vigore del d.l. n.34/2014, la non effettività come misura preventiva effettiva dell’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, a pag. 278 al punto 2.1: «2.1. Il contratto di lavoro a tempo determinato. Sulla disciplina del rapporto a termine – già oggetto di ritocco con la legge “Fornero” nel 2012 in chiave di moderata liberalizzazione, mediante l’introduzione nel sistema del contratto acausale della durata di un anno – il legislatore è intervenuto prima dell’estate (con il d.l. 20 marzo 2014, n. 34, conv. in legge 16 maggio 2014, n. 78, recante “Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese”), ampliando l’estensione della predetta durata fino a tre anni (con immaginabili effetti a cascata anche sulla disciplina dei licenziamenti, il cui presumibile, progressivo depotenziamento deriverà dall’utilizzo massiccio di rapporti a termine anche in successione, non operando il limite massimo dei trentasei mesi, stando all’opinione che sembra attualmente prevalere, in caso di ripetute assunzioni per lo svolgimento, di volta in volta, di mansioni non equivalenti del prestatore)………».

[89] La Sezione lavoro della Suprema Corte con l’ordinanza n.18419/2015 (cit.) su fattispecie di contratti successivi Poste stipulati ai sensi dell’art.2, co.1-bis,d.lgs. n.368/2001 ha così motivato il dissenso rispetto ai precedenti della Cassazione favorevoli alla piena legittimità costituzionale e comunitaria dei contratti acausali, sulla compatibilità comunitaria dell’art.5, co.4-bis, d.lgs. n.368/2001: «anche in relazione alla successione di contratti a tempo determinato stipulati ai sensi del Decreto Legislativo n. 368 del 2001, articolo 2, comma 1 bis, come modificato dalla Legge n. 266 del 2005, si pone la questione (alla quale deve ritenersi che i precedenti specifici arresti di questa Corte abbiano sostanzialmente dato risposta affermativa) se le ricordate previsioni di durata massima totale dei contratti a tempo determinato successivi, ancorchè riconducibili all’ambito della clausola 5, punto 1, lettera b), dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, di cui alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28.6.1999, costituiscano tuttavia una misura adeguata per prevenire e punire l’uso abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, dovendo al riguardo considerarsi che dette misure sono contemplate in presenza di una disciplina generale (Decreto Legislativo n. 368 del 2001, articolo 5, comma 3) che, in caso di riassunzione a termine, contempla, perche’ il contratto successivo non sia da considerarsi a tempo indeterminato, intervalli tra un contratto e l’altro considerevolmente più brevi, di dieci o venti giorni a seconda della durata del contratto precedente».

[90] In sede di memoria ex art.378 c.p.c. nella causa n.15261/14 R.G.Cass.  – promossa da una educatrice precaria di asilo comunale con una pluralità di contratti a tempo determinato che si denunciavano privi di ragioni oggettive e discussa all’udienza del 1° dicembre 2015 davanti alle Sezioni unite – è stata proposta la seguente istanza di pregiudizialità Ue sulla compatibilità comunitaria dell’art.5, co.4-bis, d.lgs. n.368/2001: «Se la clausola 5, n. 1, lettera b) e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato stipulato il 18 marzo 1999, figurante nell’allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che tale disposizione osta all’adozione di una normativa nazionale, quale l’articolo 5, comma 4-bis, del decreto legislativo n.368/2001, introdotto dalla legge n.247/2007 con decorrenza dal 1° gennaio 2008, che sanziona con la costituzione di un contratto a tempo indeterminato l’abusivo ricorso ad una successione di contratti a tempo determinato in caso di superamento dei 36 mesi di servizio, anche non continuativi, con lo stesso datore di lavoro soltanto nel caso di servizio svolto con mansioni equivalenti, essendo sufficiente differenziare le mansioni con un diverso livello di inquadramento contrattuale per non rientrare nel campo temporale limitato a 36 mesi di applicazione della misura antiabusiva nazionale e consentire così la precarizzazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato».

[91] L’art.41, co.2, l. n.89/2014 così dispone: «Al fine di garantire il rispetto dei tempi di pagamento di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, le amministrazioni pubbliche di cui al comma 1, esclusi gli enti del Servizio sanitario nazionale, che, sulla base dell’attestazione di cui al medesimo comma, registrano tempi medi nei pagamenti superiori a 90 giorni nel 2014 e a 60 giorni a decorrere dal 2015, rispetto a quanto disposto dal decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, nell’anno successivo a quello di riferimento non possono procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo, con qualsivoglia tipologia contrattuale, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e di somministrazione, anche con riferimento ai processi di stabilizzazione in atto. È fatto altresì divieto agli enti di stipulare contratti di servizio con soggetti privati che si configurino come elusivi della presente disposizione …».

[92] Pres. Criscuolo, Est. De Petris.

[93] Pres. Amirante, Est. Quaranta.

[94] Pres. Amirante, Est. Cassese.

[95] Pres. De Siervo, Est. Maddalena.

[96] Corte giust. Ue, VI sez., sent. 18 ottobre 2012,  cause riunite da C-302/11 a C-305/11 Valenza ed altri contro AGCM.

[97] Corte cost. 20 marzo 2013, n. 49.

[98]  Cons. Stato, sez. VI, 14 dicembre 2004, n. 5924; Cons. Stato, sez. V, 9 maggio 2001, n. 2609, in www.giustizia-amministrativa.it

[99]  Cass., Ss. Uu., 30 gennaio 2008, n.2031.

[100] Corte giust. Ce, II sez., sentenze 7 settembre 2006, cause (non riunite) Marrosu-Sardino e Vassallo C-53/04 e C-180/04.

[101] Pres.Roselli, Est. Mammone.

[102] Contra, Cass. n.24808/2015, cit., sugli operai forestali dell’Ente forestale Sardegna.

[103] Con varie ordinanze interlocutorie la Sezione lavoro della Suprema Corte (v. per tutte 18 giugno 2015, n. 18419, Pres. Stile, Est. Bandini; in senso conforme, richiamando la n.18419/2015, le ordinanze nn.18782-18420-18783-19284/2015) ha rimesso alle Sezioni unite, alla luce della sentenza Fiamingo della Corte di giustizia e della successiva giurisprudenza della stessa Corte di legittimità (sent. 62/2015, cit.) in sede di riassunzione dei giudizi incidentali definiti dai giudici di Lussemburgo, alcune controversie su contratti successivi stipulati da Poste italiane ai sensi della causale finanziaria, trattandosi di «questione di massima di particolare importanza, essendo inerente a un contenzioso di natura seriale già cospicuo e destinato verosimilmente ad ulteriore incremento, in presenza del quale appare necessario scongiurare l’eventuale formarsi di contrasti interpretativi nella giurisprudenza di legittimità.». Per la verità, la Sezione lavoro della Cassazione (Pres. Stile, Est. Esposito) con sentenza del 21 dicembre 2015, n.25677, ha già fortemente ridimensionato la pretesa acausalità e mancanza di ragioni oggettive dei contratti stipulati da Poste italiane ai sensi dell’art.2, co.1-bis, d.lgs. n.368/2001, affermando il seguente principio di diritto: «nel caso in cui il lavoratore agisca in giudizio deducendo l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato per illegittimità del termine apposto al contratto, è sufficiente che alleghi, a fondamento della pretesa, il contratto intercorso tra le parti e l’invalidità del termine, mentre spetta al datare di lavoro convenuto, al fine di contrastare la pretesa medesima, l’allegazione e la dimostrazione del rispetto delle condizioni (specificamente del rispetto dei limiti percentuali di cui all’art. 2 c. 1 bis D.Igs. 368/01) che giustificano la legittimità del termine.».

[104] Nella citata memoria ex art.378 c.p.c. nella causa n.15261/14 R.G.Cass.

[105] La pregiudiziale Ue proposta alle Sezioni unite della Cassazione sulla legge in materia di responsabilità civile dei magistrati è la seguente: «se i principi generali del vigente diritto dell’Unione europea della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento, della uguaglianza delle armi del processo, dell’effettiva tutela giurisdizionale, ad un tribunale indipendente  e, più in generale, ad un equo processo di cui all’art.47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia Ue in materia di responsabilità dello Stato italiano per manifesta violazione della normativa comunitaria da parte del Giudice di ultima istanza nelle sentenze Traghetti del Mediterraneo in causa C-373/03 e Commissione contro Repubblica italiana in causa C-379/10, devono essere interpretati nel senso che tali disposizioni e la citata giurisprudenza della Corte di giustizia ostano all’adozione, da parte di uno Stato membro per favorire se medesimo e le sue amministrazioni pubbliche, come nella fattispecie di causa, di una normativa come quella introdotta dalla legge n.18/2015 con l’apparente intenzione di dare attuazione alle citate decisioni della CGUE ma in realtà con il sostanziale obiettivo di vanificarne gli effetti e di condizionare la giurisdizione interna, che, nel nuovo testo dell’art.2, commi 3 e 3-bis, della legge 13 aprile 1988 n.117 sulla responsabilità civile dei magistrati, costruisce una nozione di responsabilità per dolo o colpa grave «in caso di violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea», che pone il Giudice nazionale di fronte alla scelta – che comunque venga esercitata è causa di responsabilità civile e disciplinare nei confronti dello Stato nelle cause in cui parte sostanziale è la stessa amministrazione pubblica -, come nella fattispecie di causa, se violare la normativa interna disapplicandola e applicando il diritto dell’Unione europea, come interpretato dalla Corte di giustizia, o invece violare il diritto dell’Unione europea applicando le norme interne ostative al riconoscimento della tutela effettiva e in palese contrasto con la clausola 5 dell’accordo quadro comunitario sul lavoro a tempo determinato e con il principio di parità di trattamento.».

[106] Corte giust. Ce, gr. sez., sent. 30 settembre 2003, causa C-224/01 Köbler.

[107] Corte giust. Ce, gr.sez., sent 13 giugno 2006, causa C-173/03 Traghetti del Mediterraneo.

[108] Corte giust. Ue, III sez., sent. 24 novembre 2011, causa C-379/10 Commissione europea contro Repubblica italiana.

[109] Così infatti, veniva modificato l’art.65 R.D. n.12/1041 sull’ordinamento giudiziario:

«Art. 65 – Attribuzioni della Corte suprema di cassazione.

  1. La Corte suprema di cassazione ha sede in Roma ed ha giurisdizione su tutto il territorio della Repubblica e su ogni altro territorio soggetto alla sovranità dello Stato.
  2. 2. La Corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia: a) assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge; b) assicura l’unità del diritto oggettivo nazionale; c) assicura il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; d) regola i conflitti di competenza e di attribuzioni; e) adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge.
  3. 3. La Corte suprema di cassazione espleta le funzioni di cui alle lettere a) e b) del comma 2 mediante le attribuzioni decisorie, conferitele dai codici di procedura civile e di procedura penale, in ordine ai giudizi che le sono sottoposti. Salvo il caso di ignoranza inevitabile, come definita dalla sentenza della Corte costituzionale 24 marzo 1988, n. 364, gli atti ed i provvedimenti dei restanti giudici ordinari, civili e penali, che nell’esercizio delle rispettive funzioni si discostino dall’interpretazione della legge, espressa ai sensi del primo periodo, legittimano la proposizione dell’azione risarcitoria secondo la disciplina ordinaria. In tal caso: a) la responsabilità è valutata ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile; b) si applica il comma 2 dell’articolo 13 della legge 13 aprile 1988, n. 117, e successive modificazioni.».

Inoltre, il DDL S1070 aggiungeva il comma 2-bis all’art.76 R.D. n.12/1941 sull’ordinamento giudiziario:

«2-bis. Il pubblico ministero presso la Corte di cassazione redige altresì parere scritto in ordine a qualsiasi richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea avanzata, ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, negli atti in-troduttivi di una causa pendente in Corte di cassazione. Le previsioni di cui al secondo e terzo periodo del comma 3 del-l’articolo 65 si applicano ai magistrati autori degli atti e dei provvedimenti giu-diziari che, contro il parere positivo espresso dal pubblico ministero ai sensi del primo periodo, abbiano disatteso la richiesta, avanzata da una parte, di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.».

Infine, nel DDL n.S1070 originario veniva così proposta la modifica dell’art.2, cc. 2 e 3 (con l’aggiunta del c. 3-bis), della legge n.117/1988:

«2. Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove, fatta eccezione per gli atti ed i provvedimenti giudiziari di cui al secondo e terzo periodo del comma 3 dell’articolo 65 ed al secondo periodo del comma 2-bis dell’articolo 76 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, e successive modificazioni.

  1. Al di fuori dei casi di cui al secondo e terzo periodo del comma 3 dell’articolo 65 ed al secondo periodo del comma 2-bis dell’articolo 76 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, e successive modificazioni, costituiscono colpa grave, sanzionata ai sensi del comma 1: a) la manifesta violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione. oppure senza specifica ed adeguata motivazione.

3-bis. Ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione manifesta del diritto ai sensi della lettera a) del comma 3, deve essere valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti i principali elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato, facendo riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, nonché se abbia correttamente applicato il diritto dell’Unione europea.».

[110] Questa con la motivazione dell’espunzione dell’art.30 del disegno di legge europea 2013-bis nella relazione del 16 luglio 2014: «l’articolo 30 del disegno di legge introduce disposizioni volte a modificare la legge 13 aprile 1988, n. 117, in proposito, l’esame di una riforma organica della disciplina in materia di responsabilità civile dei magistrati è oggetto di approfondito esame da parte della stessa 2ª Commissione permanente del Senato ormai da diversi mesi. Nel corso della disamina dei disegni di legge volti a modificare la cosiddetta «legge Vassalli», la Commissione ha ormai definito il testo di rilevanti disposizioni relative ai profili di responsabilità per attività e comportamenti posti in essere dall’autorità giudiziaria. Tra l’altro, la Commissione giustizia, in esito all’approvazione di alcune delle proposte emendative, ha confermato l’opzione in favore della conferma di una tipologia di responsabilità indiretta; ha ridimensionato la portata dell’istituto del filtro alle istanze risarcitorie; è in procinto di affrontare i due temi relativi ai limiti e alle modalità di attivazione dell’azione di regresso da parte dello Stato nei confronti del singolo magistrato e alla responsabilità per violazione da interpretazione non conforme agli orientamenti giurisprudenziali consolidati. Alla luce di tali rilievi la Commissione si esprime in favore dell’ipotesi che le previsioni normative recate dall’articolo 30 del disegno di legge siano fatte oggetto di stralcio o di soppressione, al fine di consentire la conclusione dell’esame del disegno di riforma in punto di responsabilità civile dei magistrati già avviato nella sede di merito ove, peraltro, si terrà conto altresì dei profili di violazione del diritto dell’Unione europea, con particolare riguardo all’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dei termini della procedura di infrazione n. 2009/2230.».

[111] L’art. 2 della l. n.117/1988 così dispone: «1. Chi ha subìto un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali. 2. Fatti salvi i commi 3 e 3 -bis ed i casi di dolo, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove. 3. Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione. 3-bis. Fermo restando il giudizio di responsabilità contabile di cui al decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.».

[112] Est. Coppola.

[113] Trib. Siena, Est. Cammarosano, 28 settembre 2015, n.260, su stabilizzazione di supplenti a.t.a. del Miur.

[114] Trib. Trani, Est. La Notte Chirone, 26 ottobre 2015, n.1528, su stabilizzazione dirigenti medici di aziende sanitarie.

[115] Come giustamente rilevato dal Tribunale di Locri (Est. D’Agostino) nella sentenza n.808/2015 di stabilizzazione del personale ata supplente, il richiamo ossessivo al divieto di conversione di cui all’art.36, c.5, d.lgs. n.165/2001 e l’art.97, c.3, Cost., per escludere la possibilità di costituzione di un rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze della p.a., ha qualcosa di “morboso” e di irrazionale (“spaventoso”).

[116] CGCE, 9 settembre 2015, causa C-160/14 Ferreira da Silva e Brito ed altri c. Stato portoghese.

[117] Così precisa la Corte di giustizia nella sentenza Ferreira da Silva e Brito la posizione assunta dalla Cassazione portoghese nella sentenza “impugnata” con l’azione di risarcimento dei danni contro lo Stato nazionale, ai punti 15-18: «15. Per quanto riguarda l’applicazione del diritto dell’Unione, il Supremo Tribunal de Justiça ha rilevato che la Corte, pronunciandosi in relazione a situazioni nelle quali un’impresa aveva proseguito l’attività in precedenza svolta da un’altra impresa, aveva dichiarato che tale «mera circostanza» non consentiva di concludere che vi fosse stato un trasferimento di entità economica, poiché «un’entità non può essere ridotta all’attività che le era affidata». 16 Il Supremo Tribunal de Justiça, poiché alcuni ricorrenti del procedimento principale gli hanno chiesto di sottoporre alla Corte un rinvio pregiudiziale, ha osservato che «l’obbligo di rinvio pregiudiziale per i giudici nazionali avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno sussiste solo quando tali giudici ritengano necessario ricorrere al diritto dell’Unione per la risoluzione della controversia di cui sono aditi e, inoltre, sia stata sollevata una questione di interpretazione di tale diritto». Inoltre, tenuto conto della giurisprudenza della Corte relativa all’interpretazione delle norme dell’Unione in materia di trasferimento di uno stabilimento non sussisterebbe «alcun dubbio rilevante» nell’interpretazione di dette norme, «che imponga il rinvio pregiudiziale». 17 Secondo il Supremo Tribunal de Justiça, la «stessa Corte di giustizia ha riconosciuto espressamente che la corretta applicazione del diritto del[l’Unione] può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata, escludendo altresì in tal caso l’obbligo di rinvio pregiudiziale. Orbene, [secondo tale giudice nazionale] alla luce del contenuto delle disposizioni [del diritto dell’Unione] menzionate dai ricorrenti [del procedimento principale], tenuto conto dell’interpretazione ad esse data dalla Corte (…) e date le circostanze della causa (…) prese in considerazione (…), non sussiste[va] alcun dubbio rilevante nell’interpretazione che impon[esse] il rinvio pregiudiziale». 18 Il Supremo Tribunal de Justiça ha inoltre evidenziato che «(…) la Corte ha stabilito una vasta e consolidata giurisprudenza sulla problematica dell’interpretazione delle norme [del diritto dell’Unione] che fanno riferimento al “trasferimento di uno stabilimento”, al punto che la direttiva [2001/23] riflette già il consolidamento delle nozioni enunciate in forza di tale giurisprudenza, nozioni che vengono formulate ora con chiarezza in termini di interpretazione giurisprudenziale (comunitaria e nazionale), il che (…) dispensa[va] dalla previa consultazione della Corte».».

[118] CGCE, gr. sez., 19 novembre 1991, in cause riunite C-6/90 e C-9/90 Andrea Francovich e Danila Bonifici e altri contro Repubblica Italiana.

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